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Perché la Cina gongola sui bulloni

L’Unione Europea rischia di cadere sui bulloni cinesi. Le misure anti-dumping decise nel 2009 grazie ad un cartello di paesi proponenti – Italia in testa – per tutelare il mercato dalla concorrenza sleale di Pechino, sono state dichiarate “discriminatorie” dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio a cui la Cina si era appellata per far cadere l’intero impianto accusatorio.

Una vittoria netta da parte del Celeste Impero che, non a caso, viene esaltata dal governo attraverso comunicazioni ufficiali in un articolo del China Daily dove si minacciano azioni ritorsive contro l’Unione Europea se non cambierà l’atteggiamento verso le aziende cinesi esportatrici di viti e bulloni che in sette anni hanno visto il loro mercato “contrarsi dal miliardo di dollari di esportazioni ad appena 80 milioni di dollari registrato nel 2014”.

“È stata una misura illegale, adesso adotteremo tutte le azioni necessarie per proteggere i diritti delle nostre aziende”, ha fatto sapere il Ministro per il Commercio Estero, Gao Hucherg  ricordando che in Cina attualmente operano più di 8.000 aziende in questo comparto che occupa 200mila persone per un export stimato in 5,4 miliardi di dollari in  mercati globali come gli Stati Uniti, Russia, Giappone, Germania e Brasile.

Le dichiarazioni di avvertimento all’Europa sono già in atto. La Camera di Commercio cinese per l’importazione e l’esportazione di macchinari e prodotti elettronici e l’Associazione Generale cinese per le industrie dei componenti delle macchine hanno diramato un comunicato congiunto in cui invitano al ritiro immediato dei dazi proprio per evitare una guerra commerciale.

La partita ovviamente non è solo quella legata alla “ferramenta” che servono a costruire aerei, treni ad alta velocità, automobili e mobili d’arredamento. Questo punto a favore della Cina farebbe cadere la “ferramenta” su cui si è basata la politica commerciale europea fino ad oggi: l’adozione di misure anti dumping che la Commissione ritiene necessarie per riequilibrare il mercato da pratiche di concorrenza sleale. Il giudizio negativo arrivato adesso proprio dal Wto, un organo terzo e indipendente, potrebbe avere come conseguenza anche un’accelerazione del riconoscimento di economia di mercato alla Repubblica Popolare cinese.

Il Wto infatti ha invitato Bruxelles a liberarsi “di codici e pratiche contrarie ai principi dell’Organizzazione e che riservano agli esportatori cinesi trattamenti poco equi”. Nella partita per il riconoscimento del market economy status significa che l’applicazione di dazi contro il dumping sono arbitrari e che il Wto è per una liberalizzazione effettiva del mercato che andrebbe a vantaggio dei consumatori.

Per adesso dal nostro governo non c’è stato alcun commento. Dal Ministero dello Sviluppo Economico filtra che la vittoria cinese è solo “parziale” ma non si sa bene quali saranno le decisione che adotterà la Commissione Europea che è titolare del dossier in quanto la politica commerciale è di diretta competenza di Bruxelles.

Un grattacapo non da poco perché la stessa Europa sulle misure anti dumping è divisa in due blocchi che poi rispecchiano anche quei paesi dove l’impresa manifatturiera è ancora attiva e pesante (Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca) e quelli che invece sono per la piena liberalizzazione come Regno Unito e gran parte dei paesi del Nord Europa.

Non è un caso che sull’acciaio, altro dossier caldo in mano al Commissario Cecilia Malmström, non sono stati ancora adottati i dazi invocati dalla maggior parte dei produttori europei che accusano la Cina di drogare il mercato con una sovrapproduzione di 340 milioni di tonnellate che sta mettendo in ginocchio il comparto industriale del Vecchio Continente.

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