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Come si dividono sulla Brexit i fondi speculativi di Londra

Di Laurence Fletcher

Nel Regno Unito gli hedge fund gestiscono circa 400 miliardi di dollari e dai loro uffici, molti dei quali nel costoso quartiere di Mayfair, generalmente cercano di mantenere un profilo basso. Ma l’incombere del referendum sull’adesione all’Ue ha provocato reazioni fuori dal coro rispetto a buona parte del settore finanziario, allineato a favore dello status quo. «Ho la sensazione che, se il 24 ci sveglieremo ancora dentro, sul Paese calerà una nube di depressione», commenta Michael Farmer, co-fondatore di Rk Capital Management, che ha donato 200 mila sterline alla campagna pro-Brexit. Anche Andrew Law, presidente e amministratore delegato di Caxton Associates, ha devoluto 200 mila sterline, ma all’altra compagine. «Chi lo sa se l’economia verterà in condizioni migliori o peggiori tra 10 o 20 anni», ribatte. «Possiamo però affermare con certezza che il rischio di lacerare questi rapporti sarebbe mostruoso».

La spaccatura tra i fondi speculativi di Londra è un ulteriore segno di quanto profondamente la Gran Bretagna sia divisa sulla questione. Secondo il fronte del Remain Londra ha beneficiato del libero mercato comunitario nel settore dei servizi, quali la gestione di fondi e le assicurazioni. I sostenitori dell’uscita replicano che l’oppressiva regolamentazione di Bruxelles avrebbe ostacolato Londra e potrebbe danneggiarla ulteriormente.

Secondo il gruppo di pressione TheCityUk, il Regno Unito raccoglie oggi il 18% del business mondiale degli hedge fund contro il 9% registrato nel 2001. I fondi speculativi sono nati negli Stati Uniti ma hanno preso piede a Londra negli anni ‘80 a seguito della deregolamentazione dei mercati finanziari britannici. Secondo Hedge Fund Research di Chicago, la City rappresenta tra il 75 e l’80% delle attività del settore in Europa.
Conquistata dalla garanzia di un facile accesso al mercato del Vecchio Continente in forza del passaporto europeo, l’elite bancaria londinese si oppone diffusamente all’uscita dall’Ue. Molti banchieri temono che il peso delle proprie piattaforme operative a Londra venga messo a repentaglio dalla scissione.

Tra gli esponenti del fronte del Remain figurano David Harding di Winton Capital Management, Manny Roman di Man Group ed Ewan Kirk di Cantab Capital Partners. Tra gli sponsor della Brexit invece emergono Crispin Odey di Odey Asset Management, Paul Marshall di Marshall Wace e Savvas Savouri di Toscafund Asset Management. Savouri riferisce di essere stato definito «stupido» per avere sostenuto pubblicamente l’opzione Leave. «È diventata la campagna più meschina e feroce mai vista». A suo avviso il futuro di Londra come centro finanziario è positivo indipendentemente dal risultato del referendum. Per esempio, le aziende cinesi si riverseranno nella City e la sceglieranno come hub occidentale per la sua forza lavoro e il regime normativo. In una lettera di aprile, Odey, fondatore dell’omonima società, e Marshall, presidente di Marshall Wace, scrivono che Londra potrebbe «prosperare e crescere» al di fuori dell’Ue riprendendosi il ruolo di centro finanziario dominante a livello mondiale.

Goldman Sachs, Jp Morgan e Morgan Stanley hanno riversato centinaia di migliaia di dollari nella campagna del Remain. I relativi vertici temono grandi spese se un’uscita imporrà una rifocalizzazione dell’attività o un riposizionamento del personale. «L’esito più realistico è che perderemmo il passaporto per i nostri servizi bancari e commerciali in Europa», ha dichiarato il presidente e ceo di JP Morgan James Dimon durante una riunione interna a inizio mese. «Ma i nostri clienti avranno ancora bisogno di noi per trattare in quello che sarà il mercato Ue. Se queste saranno le regole del gioco, dovremo agire di conseguenza».

Stando a Mark Yeandle, una recente indagine condotta da Z/Yen Group ha riscontrato che il 72% degli intervistati si aspetta che la competitività di Londra subisca lo scenario Brexit. Tuttavia il direttore associato della società di consulenza ritiene che i colossi bancari statunitensi probabilmente manterranno a Londra l’approdo verso l’Europa.

I sondaggi mostrano un Regno Unito frammentato lungo linee generazionali e di ceto. L’elettorato più facoltoso e giovane preferisce la Bremain, mentre la classe meno agiata e i più anziani sono per l’uscita. Londra è la roccaforte del Remain, ma le contee circostanti sostengono il Leave.

Rispetto agli istituti di credito, che devono sottostare ad alcune restrizioni quali le limitazioni all’entità dei bonus per i dipendenti, Bruxelles riserva una regolamentazione molto più leggera ai fondi hedge. Detto questo, alcuni dirigenti di fondi e sgr di Londra conservano l’amaro ricordo di una proposta del 2009 volta a ridurre l’uso di denaro a prestito degli hedge fund e a incrementare la trasparenza dei loro bilanci. Nonostante le disposizioni siano poi risultate meno onerose di quanto gli operatori temessero, molti hedge fund si lamentano ancora per i costi di adeguamento. La disputa ha portato la maggioranza dei fondi a una maggior diffidenza nei confronti del groviglio di norme comunitarie sulle imprese e sulle condizioni di lavoro.

Law, ex trader di Goldman, sposa invece la Bremain anche perché l’immigrazione porta nella City europei di talento: il 10% della forza lavoro del distretto proviene da altri Paesi dell’Ue. Law prevede «una fase di recessione» in caso di Brexit. «Se non avremo un posto al tavolo delle trattative, le modifiche apportate dall’Ue saranno vantaggiose per loro e non per noi», conclude.

Traduzione di Giorgia Crespi

(Articolo pubblicato su Mf/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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