Skip to main content

Perché il rilancio del centrodestra non passa dal turbo-liberismo

I moderati in Italia – ha ragione Luciano Fontana nel suo editoriale del 13 settembre sul Corriere della Sera – non hanno affatto bisogno di ritornare allo “spirito del 1994”, il cui collante, più che l’opposizione alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, era quella rivoluzione liberista che chissà per quale motivo ci si ostina a chiamare – sbagliando – rivoluzione liberale.

Sbagliando, sì. Perché “fare la rivoluzione liberale” poteva avere un senso per Gobetti in quell’Italia dei primi anni Venti, che sbucava nel fascismo, mentre ha poco senso nell’Italia di oggi, che, pure con tutti i difetti, è a tutti gli effetti una vera democrazia liberale. Si dovrebbe pertanto dire rivoluzione liberista, perché era quella che Berlusconi voleva fare, sull’esempio di Reagan e della Thatcher.
Francamente, io non so se in Italia ci sia stata o meno una rivoluzione liberista, ma mi pare che molti dei cardini di quello che è diventato negli anni un vero e proprio paradigma dominante (come quelli che per Thomas Kuhn governano il progresso scientifico) siano ormai parte sostanziale dell’orizzonte di idee all’interno del quale si svolge la vita politica ed economica nazionale.

E quali sono queste idee? Sono le idee di Hayek, Mises, Friedman, per citare i maggiori: l’idea che lo Stato è il male, mentre il mercato è l’unica misura del creato; l’idea calvinista della concorrenza quale arena dove i salvati conquistato la vita eterna ed i dannati l’eterna perdizione; il dogma salvifico della teoria dello sgocciolamento (meno tasse ai ricchi uguale più ricchezza per tutti) e soprattutto il dogma della costante e perfetta coincidenza tra interessi privati ed interessi generali, vale a dire la transustanziazione dei vizi privati in pubbliche virtù.

In quest’ottica le disuguaglianze sociali ed economiche, che il mercato naturalmente produce, non solo non sono affatto un male, ma sono anzi la molla che alimenta le ambizioni individuali. Pertanto, qualsiasi intervento perequativo, fosse pure dei soli punti di partenza, prima ancora che ingiusto (Hayek scrive chiaramente che l’espressione “giustizia sociale” non è altro che un modo diverso per dire invidia sociale) è deleterio, in quanto rischia di compromettere il meccanismo che genera progresso.

In sintesi, il cuore di una concezione liberista del mondo poggia sull’assunto che la concorrenza ed il mercato sono i mezzi migliori per produrre ricchezze delle meraviglie (il che può essere anche vero) e promuovere il benessere generale (il che è tutto da dimostrare).

Non è affatto detto infatti che il libero mercato e la lotta della concorrenza giovino ai più. Anzi, è forse vero il contrario. Scrive Luigi Einaudi: “Gli uomini del secolo passato supposero che bastasse lasciar agire gli interessi opposti perché dal loro contrasto nascesse il vantaggio comune. No, non basta. Se si lascia libero gioco al laissez faire, passer, passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui”. Sul punto Wilhelm Röpke è chiarissimo: l’economia di mercato “abbandonata a se stessa, diventa pericolosa, anzi insostenibile, perché ridurrebbe gli uomini a un’esistenza non naturale che tosto o tardi essi si scrollerebbero di dosso insieme con l’economia di mercato diventata odiosa”.

Infatti, “l’uomo – continua Röpkeinvoca un’ancora di salvezza, qualunque ancora, persino quella collettivistica. Egli sa di perdere qualsiasi libertà, di diventare schiavo del più spaventoso padrone che la storia abbia mai veduto, il tiranno collettivo, che non ha nome, che è tutti e nessuno, e stritola gli individui per ridurli a meri strumenti del mito chiamato volontà collettiva. Ma già prima erano meri strumenti. Che sono infatti gli uomini ridotti ad esecutori della volontà di una forza cieca che si chiama concorrenza, mercato, prezzo uguale al costo?”.

Se così stanno le cose, allora non è eccessivo dire l’economia di mercato e la libera concorrenza possono, se non corrette, indebolire le istituzioni liberali e trasformare una società aperta nel suo opposto. Einaudi lo dice chiaramente “la pura società economica di concorrenza è pronta alla sua trasformazione o degenerazione nel collettivismo puro” o per dirla in altri termini: “come la perfetta democrazia sbocca nello stato collettivistico, così la perfetta concorrenza sbocca nel sistema economico collettivistico”. Infatti, “l’economia di concorrenza vive e dura, data l’indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della propria attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa, in cui consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò, che essa non sopravvive alla sua esclusiva dominazione. Guai al giorno in cui essa domina incontrastata in tutti i momenti e in tutti gli aspetti della vita. La corda troppo tesa si rompe”.

Ciò vuol dire, tirando le somme, che la macchina economica “ha i suoi fini” – le parole sono di Röpke – “che non coincidono coi fini umani”. Pertanto la fede in un mercato che autoregolandosi produce contemporaneamente ricchezze private e benessere generale è falsa. “Non v’è più nessuno – le parole sono di Einaudi – il quale dia alla regola empirica del lasciar fare e del lasciar passare (cosiddetto liberismo economico) valore di legge razionale o morale; ma non oserei neppure affermare che vi sia tra gli economisti chi dia al ‘liberismo’ quel valore di ‘legittimo principio economico’ che il Croce sembra riconoscergli indiscutibilmente”. In sintesi, “la scienza economica” – è ancora Einaudi che parla – “non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo”.

Se il mercato lasciato a sé stesso non genera affatto il migliore dei mondi possibili, ma rischia di cannibalizzare la società liberale che pure l’ha generato, diviene allora necessario intervenire: “L’attuale organizzazione della società” – scrive Churchill – “è guidata da un impulso alla selezione competitiva. Può darsi che questo sia un modo molto imperfetto di organizzare la società, ma è tutto ciò che ci separa dalla barbarie. (…) Tuttavia, proprio per questo, tale sistema offre una pressoché illimitata possibilità di miglioramenti. Possiamo progressivamente eliminare i mali che l’affliggono; possiamo progressivamente aumentare i benefici che vi sono insiti. Io non voglio vedere fiaccato il vigore della concorrenza, ma possiamo fare molto di più per mitigare le conseguenze per chi non ce la fa. Vogliamo tracciare una linea al di sotto della quale non permetteremo che le persone vivano o lavorino, ma al di sopra della quale si deve competere con tutta la forza che un essere umano ha. Vogliamo una libera concorrenza che sia motore di progresso, non una libera concorrenza che trascini le persone verso il basso”.

Per Röpke intorno alla macchina economica è necessario costruire “una solida cornice antropologico-sociologica […]. Il principio individuale nel nocciolo dell’economia di mercato deve essere controbilanciato, entro la cornice, dal principio sociale umanitario, se vogliamo che entrambi sussistano nella nostra società moderna e se nello stesso tempo vogliamo vincere i pericoli mortali della riduzione a massa” dei cittadini.

Tutto ciò per dire che non solo si può essere liberali senza essere liberisti, ma che si può essere paladini del mercato e della libera concorrenza senza che di essi si abbia una concezione salvifica e dogmatica. Una concezione che è invece insita nel paradigma creato da Hayek e che ha più affinità con una idea marxista della storia che non con una visione liberale. Breve: si può avversare la visione del mondo propria del paradigma liberista o hayekiano senza per questo essere anticapitalisti.

A questo punto però bisogna chiedersi: chi è il liberale? Abbozzo una definizione: liberale è chi cerca ogni giorno (visto che non vi è una formula valida per sempre) di conciliare le ragioni della giustizia sociale e della libertà economica perché bilanciandosi possano produrre una società quanto più prospera e libera possibile, impedendo così che si formi una questione sociale che, abbattendo le istituzioni liberali, apra la strada alla tirannia di uno, di pochi o di molti.

In conclusione, se lo “spirito del 1994” è quello della rivoluzione liberista allora conviene che i moderati non lo evochino neppure quello spirito. Al contrario molto più opportuno sarebbe fare del pensiero di un Einaudi, di un Röpke o di un Churchill le strutture portanti del nuovo polo di chi ha interesse a conservare e rafforzare le istituzioni liberali conquistando per esse il più ampio consenso.

Exit mobile version