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Perché il riequilibrio americano è interessante per l’Italia. L’analisi del Gmf

Il sito del German Marshall Fund ha pubblicato un’analisi interessante che una fonte del diplomatic-business system italiano, commentatore discreto, dice essere “interessante e non banale, anche per il dibattito italiano”. Vediamo di che si tratta.

Il presupposto da cui partono i due autori del think tank americano (la direttrice dell’ufficio di Parigi e l’analista senior del programma difesa e sicurezza) è un dato effettivo. Ci sono parti della presidenza Trump che sopravviveranno a Donald Trump, che ha avuto il compito (forse ingrato, ma anche fruttuoso) di esternare pubblicamente una linea di ri-bilanciamento generale che lo ha preceduto e che gli succederà. Per esempio, il ritiro dal ruolo di “poliziotto globale” degli Stati Uniti, o ancora il crescente interesse americano nel superare la Russia e soprattutto la Cina nel campo della tecnologia, innescando con i secondo un confronto globale.

Sono due argomenti enormi, con cui l’Europa alleata americana dovrà fare i conti. Il primo, per esempio, riguarda l’impegno sulla sicurezza, in tema counter-terrorism e di state-building, nel Nord Africa e in Medio Oriente. Gli americani intendono traferire parte degli oneri a proprio carico ai partner regionali – attraverso la creazione di strutture di difesa congiunta come la Joint Force del G5 Sahel (che ha una trazione esterna francese) o la cosiddetta Nato Araba (l’alleanza militare guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nella regione mediorientale).

E in questo processo di trasferimento di incarichi e carichi, gli alleati europei non possono pensare di esserne esclusi, e in questo, soprattutto sul fronte africano, l’Italia come la Francia saranno potenzialmente chiamate a un maggior coinvolgimento per collegamenti storici e vicinanze geografiche col nord del continente.

L’analisi guarda al fronte francese, e per questo è interessante anche per l’Italia, che ha una sorta di competizione di ruoli in alcune aree africane, come la Libia o il Niger, e che in questo momento è guidata da un governo che ha incalzato Parigi in più di un’occasione (nota: l’argomento immigrazione, che torna costantemente al centro del dibattito pubblico italiano non è esterno a queste valutazioni).

Il Gmf spiega che gli americani apprezzano il ruolo francese in Africa, sono i loro “vice-sceriffi”, e c’è un mutuo scambio che avviene soprattutto in due territori, il Mali e il Niger, dove i dispiegamenti militari e di intelligence franco-americani hanno un valore più che operativo: rappresentano un allineamento politico tra due governi che hanno avuto rapporti sinusoidali in questi ultimi due anni.

Certamente, con Trump la sicurezza delle fasce sahariana e sub-sahariana scenderà nella lista degli interessi americani, e questo si porterà dietro una contrazione della spesa investita da Washington, con conseguenti aumenti degli sforzi per gli altri. Non ne è esclusa Roma, certamente Parigi – che vive una situazione simile: la strategia di spingere la costruzione di realtà come il G5 Sahel è legata a una sostanziale volontà di disimpegno e affidamento delle beghe locali ai governi del posto (ma i francesi sanno che è una questione delicata, perché soprattutto in ambito di sicurezza quei territori possono essere fertili per minacce nazionali).

Qualcosa di simile sta avvenendo in Libia, dossier che l’amministrazione statunitense sembra trattare da almeno tre anni solo nell’ottica dell’anti-terrorismo “from behind“, affidando i processi politici per la sistemazione del Paese – dove gli equilibri si rompono facilmente – agli amici europei, su tutti gli italiani.

La Francia è già riuscita a coinvolgere alleati europei in missioni come Barkhane, attività anti-terrorismo in senso ampio, con l’obiettivo di combattere l’insorgenza di gruppi jihadisti territoriali in un’areale ampio che passa da Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Estoni, spagnoli e inglesi hanno aderito con partecipazioni di vario genere (anche combat, sebbene non ufficialmente) all’operazione, mentre i tedeschi supportano anche le forze speciali francesi impegnate in missioni di anti-terrorismo più specifiche in Niger e Mali.

In questi giorni c’è un ampio dibattito su quello che rappresenta il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania, un accordo con cui i due Paesi spingono l’integrazione bilaterale su esteri e comparti industriali strategici come quello della difesa. Tra le critiche, c’è anche il sospetto che il ritorno spinto degli interessi nazionali favorisca i desideri francesi sull’Africa, con Parigi che troverebbe maggiore autonomia strategica tramite i passi indietro americani. Per questo, scrivono i due del Gmf, “se l’Europa vuole continuare a spingere per un approccio globale, tanto più importante perché i concorrenti lo stanno già facendo, allora deve rapidamente acquisire la forza comune per farlo”.

Altro aspetto, gli spazi che si creano con la strategia Usa. Quello a favore della Francia non è l’unico. Per esempio, il governo italiano sta lavorando da diversi anni con attenzione sul ruolo del Paese non solo in Libia, ma anche in Mozambico, Eritrea ed Etiopia – luoghi, gli ultimi due, di un viaggio del premier Giuseppe Conte, e di continui contatti diplomatici.

L’approccio militarista americano potrebbe ritorcersi contro a Washington, “perché non affronta le cause profonde dell’estremismo violento, né muove i cambiamenti strutturali necessari per rendere le forze armate africane più efficaci”, dicono dal Gmf. E qui, davanti alla strategia di ripiegamento americana, diventa centrale il coinvolgimento cinese, che offre ai “paesi africani, non solo la cooperazione per la sicurezza, ma anche affari, scambi culturali e assistenza umanitaria”.

Questa strategia africana è stata delineata pubblicamente il 13 dicembre scorso dal consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, durante un discorso tenuto alla Heritage Foundation, think tank conservatore di Washington. Quello che è uno dei più stretti e influenti collaboratori della Casa Bianca, ha fatto capire che la centralità era nel contenimento della Cina. Però, ha spiegato John Stremlau, professore della Wits University di Johannesburg, la strategia ignora due decenni di reazioni complesse, ma generalmente positive, che hanno portato la Cina a diventare il principale partner commerciale della regione sub-sahariana e una fonte importante di aiuti e investimenti

Le precedenti amministrazioni statunitensi hanno lavorato anche in cooperazione trilaterale con la Cina, per esempio i progetti del Carter Center sulla sanità pubblica, o piani governativi come Feed The Future (sull’agricoltura) e Power Africa (sull’energia sostenibile). Ma Bolton, rappresentante di un’amministrazione che ha sempre pensato di tagliare quei programmi, ha descritto il ruolo cinese in Africa con toni severi: “La Cina usa tangenti, accordi opachi e l’uso strategico del debito per tenere prigionieri gli stati africani ai desideri e alle richieste di Pechino”.

Ad oggi, secondo un’altra analisi della Brookings Institution, la Cina in Africa è comunque destinata a crescere, l’Ue invece lavorerà per consolidare le sue relazioni commerciali (e per tutelare gli interessi dei singoli paesi), mentre l’amministrazione Trump sembra disinteressata a creare lo schema politico-diplomatico per spingere in generale il partenariato (sebbene il Congresso si muova costantemente su iniziative opposte).

 

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