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La battaglia di Monaco. Così Trump e Pelosi sfidano insieme Huawei

Non è vero che Donald Trump e Nancy Pelosi litigano su tutto. C’è un fronte che li vede schierati nella stessa trincea: Huawei, il colosso della telefonia mobile cinese che gli Stati Uniti considerano un pericolo per la sicurezza delle informazioni che scorrono e scorreranno sulla rete di ultima generazione, il 5G.

Invitata alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, kermesse che fino a domenica riunirà nella capitale bavarese capi di Stato e di governo e ministri da tutto il mondo, da Emmanuel Macron a Justin Trudeau, da Mike Pompeo a Sergej Lavrov, Wang Yi e Mevut Cavusoglu, la speaker democratica della Camera ha messo in chiaro che sulla sicurezza del 5G non c’è tifoseria che tenga. “La Cina vuole esportare la sua autocrazia digitale attraverso il gigante delle telecomunicazioni Huawei – ha detto la democratica di Baltimora – le nostre nazioni non possono cedere la nostra infrastruttura delle telecomunicazioni alla Cina per convenienza finanziaria”. “Una decisione così mal-pensata – ha proseguito Pelosi – non farebbe altro che rafforzare Xi Jinping mentre viola i valori democratici, l’indipendenza economica e la sicurezza nazionale”.

Punzecchiata da una giornalista cinese che le ha chiesto se davvero crede che la democrazia occidentale sia “così fragile” da dover temere Huawei, la leader dei Dem Usa ha risposto di aver “seguito la Cina per decenni” e che è “a beneficio collaterale” di Europa e Stati Uniti escludere dalla banda ultralarga l’azienda cinese. In quattro parole: “Non avvicinatevi a Huawei”. Non fosse per il maxi-schermo, l’audience avrebbe creduto di trovarsi di fronte il Tycoon della Casa Bianca. E questo è uno dei dati più interessanti della prima giornata della conferenza, dove Huawei sarà “l’elefante nella stanza”, scrive su twitter Joseph Nye, professore di Harvard e padre del soft power: “La posizione degli Stati Uniti è bipartisan”.

Così bipartisan che mentre Pelosi bacchettava l’azienda tech di Shenzen in una stanza, in un’altra alti funzionari del governo americano si davano da fare nella stessa direzione. Robert Strayer, vice sottosegretario di Stato per la Cyber-security, ingaggiava un duello a distanza con John Suffolk, vicepresidente di Huawei. Dall’amministrazione Trump nei giorni scorsi è stato fatto trapelare che il governo ha le prove sulla capacità di Huawei di installare “backdoors” nell’equipaggiamento fornito per costruire la rete 5G con cui sottrarre dati sensibili. “Loro stessi ammettono che sono tecnicamente in grado di installare backdoors nei software” ha detto Strayer da Monaco. “Se avete le prove, pubblicatele. Mostratele al mondo” gli ha risposto Suffolk.

Il numero due britannico dell’azienda ha rincarato la dose in un colloquio telefonico questo venerdì con la stampa internazionale. La proposta del procuratore generale degli Stati Uniti William Barr di creare una cordata di aziende americane per comprare azioni delle principali concorrenti di Huawei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia, è stata bollata come “semplice speculazione” fra le risate dei dirigenti presenti. Una ad una, Suffolk ha smentito le accuse rivolte all’azienda, compresa l’incriminazione questo giovedì della Procura federale di Brooklyn per riciclaggio e “cospirazione nel furto di segreti commerciali”.

Lo scontro su Huawei è andato avanti con altri due funzionari di livello da Washington Dc. Robert Blair, rappresentante speciale degli Stati Uniti per le politiche delle telecomunicazioni, ha rincarato la dose. Il motto preferito della difesa di Huawei, “fornite le prove”, non regge, ha detto Blair, perché “negli ultimi due anni ci sono state prove molto più che sufficienti sul modo in cui il governo cinese ha usato i suoi campioni nazionali, l’onere della prova oggi ricade su Huawei”. Poi, rivolto ai colleghi del governo inglese di Boris Johnson, che ha deciso per un bando solo parziale di Huawei dal 5G mandando su tutte le furie Trump: “non ci sarà un’erosione dei rapporti”, ma, ha aggiunto, Downing Street farebbe bene a “ripensare” alla decisione.

Il fronte unitario anti-Huawei in scena a Monaco può essere casuale, o forse no. Di certo rispecchia in pieno la strategia dell’amministrazione Trump per convincere i Paesi europei a non fare il passo più lungo della gamba. “Gli ufficiali dell’amministrazione a Monaco hanno in programma di mettere in chiaro che i Paesi europei non devono per forza amare Trump per fare quel che è nell’interesse della loro sicurezza nazionale”, scrive sul Washington Post Josh Rogin.

In ballo c’è la permanenza dei Paesi europei nel sistema di condivisione di intelligence americano e della Nato. Per metterla con Lindsey Graham, senatore repubblicano e consigliere ascoltatissimo da Trump sulla politica estera: “Questa è una delle più importanti decisioni che i nostri alleati prenderanno sui loro rapporti futuri con gli Stati Uniti”.

Prima di affondare il colpo decisivo contro Huawei (ci sono diverse soluzioni al vaglio, nessuna semplice da realizzare), la Casa Bianca vuole sondare fino all’ultimo gli umori degli alleati europei. Anche per questo oggi il Dipartimento del Commercio ha annunciato una proroga di altri quattro mesi del bando presidenziale contro Huawei imposto nel maggio del 2019 ma mai entrato in vigore, in un continuo tiro alla fune all’interno dei negoziati commerciali con Pechino.

Per il momento il bilancio non è dei migliori. Dopo il nì di Londra, è arrivato il no secco di Parigi: il governo francese, ha detto il ministro dell’Economia Bruno Le Maire, non escluderà Huawei dal 5G (ma diverse compagnie francesi lo hanno già fatto). L’Italia riprende fiato dopo l’aggiornamento della normativa con il decreto cyber, ma di bandi non ne ha voluto parlare. Rimane in bilico la Germania di Angela Merkel, con una Cdu spaccata dalla lobby cinese che ha portato un nutrito gruppo di deputati a firmare un documento contro qualsiasi bando di Huawei o intervento americano nelle tlc europee. Non è un caso, allora, la massiccia presenza di funzionari americani a Monaco. La battaglia prosegue.

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