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Covid-19, l’arroganza epistemica e la difficoltà di cogliere i segnali. L’analisi di Saccone

È verosimile che nelle prossime settimane la pandemia di Covid-19 acceleri con un aumento dei casi sia negli Stati Uniti sia in Europa, presentando scenari difficilmente prevedibili con dinamiche complesse non direttamente connesse ai meri aspetti epidemiologici. Il principale driver sarà l’ampiezza e la velocità con cui i governi del mondo reagiranno e riusciranno a coordinare la politica fiscale e monetaria e ad aumentare significativamente le misure di stimolo. È possibile che Stati Uniti e Cina mettano da parte le differenze strategiche al fine di guidare congiuntamente una risposta che deve necessariamente essere globale e non prevaricata da inclinazioni nazionalistiche, con conseguenti restrizioni all’esportazione e interruzioni ancora più gravi della catena di approvvigionamento. I prossimi tre mesi vedranno un forte calo al ribasso delle prestazioni economiche mondiali e nel caso di comportamenti nazionalistici estremi potrebbe esserci veramente il rischio di un collasso economico catastrofico altamente disruptive per l’economia del pianeta.

Poiché ci sono così tante incognite, la modellizzazione economica di questa situazione in continua evoluzione è estremamente difficile, in particolare per l’Italia che, se non salta le barriere ideologiche che da decenni l’hanno avviluppata, non consentendole di primeggiare, come avrebbe potuto, ne subirà le conseguenze, pagando un prezzo enormemente alto sia sul piano sanitario sia sul piano sociale.

Ma tutto questo potevamo evitarlo? Era prevedibile?

In effetti molte sono le indicazioni più o meno fantasiose che nei secoli, sino ai giorni nostri, si sono succedute. Potremo iniziare da Michel de Nostredame, più noto con lo pseudonimo di Nostradamus, che in una delle quartine della sua opera “Le Profezie” aveva previsto la diffusione di una grande epidemia che avrebbe colpito una serie di città italiane.

Ma ugualmente affascinanti possono essere i racconti di romanzieri di ogni tempo che hanno spesso sentito il fascino oscuro delle epidemie e che le hanno sapute raccontare come Albert Camus ne “La peste” o Margaret Atwood nel romanzo di fantascienza post apocalittica “L’ultimo degli uomini” dove la scrittrice lancia un allarme, in un mondo devastato da un’epidemia, contro l’abuso dell’ingegneria genetica e lo sfruttamento sessuale minorile e il lavoro infantile.

Più recentemente troviamo personaggi come la medium Sylvia Browne che nel 2008, con il suo libro “End of days”, aveva previsto la pandemia nel 2020 con queste parole: “Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma a causa di una epidemia, una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura”.

Nel 2015 ad una conferenza Ted, il fondatore di Microsoft, Bill Gates, ammoniva di non farsi trovare impreparati di fronte a un virus trasmissibile per via aerea da pazienti asintomatici. Avrebbe causato un disastro. “Abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un’epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia”.

L’ipotesi di un virus che scatena l’inferno di una pandemia peraltro compare in tanti episodi di fiction. Lo scrittore americano Dean Koontz, con un romanzo pubblicato nel 1981, “The eyes of darkness”, porta dritti dentro le nostre paure odierne, facendo riferimento a un virus chiamato “Wuhan-400”: proprio come la città cinese epicentro del covid-19.

Nel 2011 Steven Soderbergh con il film “Contagion” disegna uno scenario in cui il virus nasce in Cina dal contatto tra un pipistrello e un maiale che poi viene mangiato da quello che diventa il paziente zero. È invece il 2012 l’anno in cui David Quammen scrive Spillover, un libro nel quale racconta l’evoluzione delle pandemie. Tesi questa dello Spillover, e in particolare della pericolosità dei pipistrelli, ripresa anche da Gwynn Guilford , giornalista di Quartz, che proprio sulla autorevole testata scrisse già nel 2013 un articolo dal titolo profetico: “Chinese bats carry viruses primed to cause the next deadly pandemic”. Benché sia i film, sia i libri, si basino su evidenze scientifiche, sono certamente opere di narrativa e come tali devono essere considerate. Appare più opportuno verificare che l’eventualità di una pandemia come quella che stiamo attraversando in queste settimane fosse stata prevista anche da chi, tutti i giorni, lavora in questo ambito a livello di ricerca scientifica. In effetti del problema se ne sono occupati studiosi, riviste di relazioni internazionali e la stessa Organizzazione mondiale della sanità. Quest’ultima, in una conferenza all’inizio del 2018, l’aveva definita: “Un elemento patologico sconosciuto, un virus di origine animale, capace di nascondersi nella fase di sviluppo iniziale, e di insinuarsi in vaste zone geografiche prima di essere identificato”. Precisando poi che la minaccia di una pandemia è “reale”.

Il Csis a ottobre 2018 aveva simulato una pandemia globale e, prevedendo le reazioni lente dei Paesi, aveva sentenziato: pesa la sottovalutazione della salute come problema per la sicurezza nazionale.

Anche gli esperti del Center for Strategic and International Studies di Washington, hanno raccontato di una situazione di “crisi multiple” da coronavirus: una pandemia globale, una crisi di legittimità e governance a Pechino, un congelamento dell’economia.

Il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) avrebbe redatto un documento dal titolo: “Un mondo a rischio”, dove un virus, paragonabile al nuovo Sars-Cov, veniva menzionato come agente patogeno in grado di scatenare un’epidemia di ampia portata che si sarebbe potuta tramutare in una pandemia.

Interessante la scoperta fatta dalla giornalista tedesca Kristina Dunz che avrebbe scovato una ricerca commissionata dal Bundenstag tedesco all’Istituto Robert Koch, datata 2012, che elabora i pericoli e le misure per un’epidemia straordinaria con la diffusione di un nuovo tipo di virus, epidemia che – afferma il documento – inizia in Asia, dove l’agente patogeno si diffonde dagli animali selvatici agli esseri umani nei mercati e il pericolo non viene riconosciuto nella sua dimensione fino a settimane dopo.

Molto interessante il documento “Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus as an Agent of Emerging and Reemerging Infection” pubblicato dalla Clinical Microbiology Reviews dell’American Society for Microbiology addirittura nel 2007. È un documento molto articolato ma è sufficiente leggere le ultime righe dell’ultima sezione intitolata “Should we be ready for the reemerge of Sars?” in cui si fa specificamente riferimento a nuovi virus di origine animale e alla necessità di farsi trovare pronti.

Nel settembre del 2019 il Center for Health Security della Johns Hopkins pubblicò un documento intitolato “Preparedness for High-Impact Respiratory Pathogen Pandemic”. La cosa interessante di questo documento, oltre al suo contenuto decisamente dettagliato, è che fu pubblicato in concomitanza con l’esercitazione Event 201 nata per definire le strategie da adottare in caso di pandemia.

Un ulteriore documento che presenta elementi di interesse è quello della Rand Corporation, intitolato “Identifying Future Disease Hot Spots”, pubblicato nel settembre del 2016 e che faceva il punto sul livello di preparazione delle diverse aree del mondo di fronte alla potenziale minaccia di una pandemia.

Gli allarmi non sono mancati, le previsioni c’erano, perfino le esercitazioni sono state fatte e, quindi, non è qualcosa che non potevamo prevedere. L’insegnamento più importante che possiamo trarre dall’attuale crisi sanitaria ed economica è proprio imparare ad interpretare in modo accurato i segnali, anche se deboli, e gli allarmi che ci giungono dalla comunità scientifica. Tornare a mettere al centro delle decisioni strategiche e politiche la scienza è l’unico strumento che abbiamo per individuare le possibili soluzioni ed evitare che alla scienza sia demandato un solo ruolo accessorio.

Questo è il momento del che fare ma l’Europa continua a mostrarsi inadeguata specialmente quando dice “Dobbiamo trarre tutte le lezioni dell’attuale crisi e iniziare a riflettere sulla resilienza delle nostre società di fronte a tali eventi. È giunto il momento di istituire un sistema di gestione delle crisi più ambizioso e di ampia portata all’interno dell’Ue, compreso, ad esempio, un vero centro europeo di gestione delle crisi”. Oppure quando Guy Verhofstadt, l’ex presidente del gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali al Parlamento europeo, dice: “Negli ultimi due mesi una cosa è diventata chiara, è che non possiamo continuare così, che non può essere business-as-usual, tutto come al solito. La cooperazione intergovernativa è assolutamente insufficiente per affrontare una crisi pandemica della portata che abbiamo di fronte oggi. Abbiamo bisogno di un centro di decisione e di una linea di comando e questo su scala continentale.

Evidentemente tra i leader europei, e non solo, i concetti di business continuity, o continuità operativa, non sono esattamente di casa. Come fare lo sappiamo ed esistono norme e buone pratiche che da decenni dicono come si deve gestire una crisi. Oggi è fondamentale integrare i valori e gli approcci della continuità operativa all’interno dei valori e della cultura della comunità. Difatti il suo successo dipende dal livello di integrazione con le strategie europee. Più la continuità operativa è presente nella cultura statuale maggiore sarà il suo peso nella definizione degli obiettivi e delle strategie della comunità.

In questo senso gioca un ruolo fondamentale quella che viene chiamata la consapevolezza della leadership, ovvero la presa di coscienza, da parte dei governanti del ruolo fondamentale giocato dalla continuità operativa in tempo di crisi per la convivenza sociale e la sopravvivenza politica ed economica dell’Europa.

La consapevolezza è un processo dinamico molto complesso. Un’organizzazione, soprattutto nella fase di prima istituzione di una politica e di un sistema di gestione di continuità operativa, deve avere riguardo ad implementare dei meccanismi che permettano di diffondere all’interno dell’organizzazione la cultura della continuità stessa. Solo grazie ad un’integrazione ed allineamento di quest’ultima con la strategia e la cultura di tutte le nazioni è possibile sviluppare un sistema di gestione efficace che potrà aiutarci ad affrontare le sfide che certamente si proporranno per tutta l’umanità nel prossimo futuro. Penso per esempio, ma non solo, al bioterrorismo, arma contro l’umanità, di fatto una minaccia reale che rischia di mettere a dura prova l’intero sistema sociale con il quale rischiamo di doverci confrontare nei prossimi decenni e che potremo sconfiggere solo se saremo sufficientemente preparati a gestire crisi globali.

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