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Vaccino anti-Covid, a che punto è la gara strategica tra Paesi

La pandemia non si ferma, la curva dei contagi cresce, e su tutto piomba il vaccino di Vladimir Putin, che sfrutta anche il momento delicatissimo per un annuncio sensazionalistico rapidamente bloccato dalla Comunità scientifica. Per l’Oms il farmaco creato dall’istituto statale Gamaleya non è che in “Fase-1” della sperimentazione, ossia un livello leggermente arretrato rispetto ad altri concorrenti. Ma Mosca vuole intestarsi la vittoria, il primato: passaggio simbolico per il potere putiniano – che ha ribattezzato il vaccino “Sputnik 5”, evocando il primo satellite artificiale inviato nello spazio dai sovietici nel 1957.

“Il punto è avere un vaccino che sia sicuro per la salute degli americani e del resto del mondo, non essere i primi”, ha commentato il segretario alla Salute statunitense, Alex Azar, impegnato in questi giorni in una visita diplomatica dai profondi significati geopolitici a Taiwan – Paese che ha risposto efficacemente all’epidemia, ma che la Cina ha fatto in modo di escludere dalle comunicazioni dirette dell’Oms in quanto lo ritiene una provincia ribelle e teme che dai riconoscimenti in campo medico-scientifico possano nascere aperture di altro genere.

Stante la situazione globale, è evidente come lo sforzo della comunità scientifica sul siero anti-Covid segua tre direttrici. Innanzitutto trovare una soluzione a una malattia che ha causato una crisi non solo sanitaria. Poi, ottenere un risultato efficace, obiettivo che le case farmaceutiche vedono – chiaramente – come un tesoro dal valore inestimabile. Infine, ma non ultimo degli interessi, la volontà dei singoli Paesi di arrivare prima e raggiungere il vantaggio strategico di aver prodotto il vaccino battendo sul tempo i concorrenti. Non è un caso se gli Stati Uniti hanno finanziato con investimenti federali la ricerca, mettendo quasi dieci miliardi di dollari a disposizione di una manciata di società private i cui laboratori stanno lavorando notte e giorno per imprimere il Made in Usa sull’arma strategica — l’ultimo miliardo è arrivato al gruppo farmaceutico Johnson & Johnson. Ed è altrettanto logica l’attenzione che le intelligence di mezzo mondo stanno ponendo sulla ricerca. Nell’anno della biosicurezza diversi sono gli scenari potenziali: dal furto di dati ai sabotaggi di vario genere. E come dimenticare la missione militare con cui la Russia era arrivata in Italia a portare aiuti nei giorni più bui della pandemia? Già ai tempi si scriveva che fosse un tentativo di carpire informazioni di bio-intelligence: sono servite al Gamaleya?

Attualmente, stando ai dati disponibili (sono stati raccolti dall’istituto Milken di Pasadena, ma le informazioni non sono certo prive di filtri di sicurezza e cortine fumogene concorrenziali, come ovvio), su oltre 199 aziende impegnate in vari progetti, sono sei quelle arrivate alla “Fase-3” – quella finale e fondamentale, che il Gamaleya sembra aver saltato del tutto sebbene senza di essa è impossibile “sapere se il vaccino è efficace e sicuro”, come spiegato al CorSera da Sergio Arbignani, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano. La Moderna di Cambridge, società biotecnologica del centro universitario del Massachusetts, e la partnership BioNTech/Pfizer, sempre americane, sono le due considerate più avanti con la sperimentazione. Hanno pensato entrambe a un vaccino che si basa sull’RNA contenente il gene della proteina del virus, e stanno avviando la terza fase coinvolgendo trentamila persone per i prossimi (almeno sei) mesi – per confronto, i test russi sono stati fatti sulla metà dei campioni iniziali, 38 persone, in meno di una settimana.

Poi c’è il Jenner Institute dell’università di Oxford che lavora con la anglo-svedese AstraZeneca su vettori virali non replicanti derivati dagli scimpanzé. A questo progetto prende parte anche l’Italia, il vettore virale innocuo “Azd1222” creato dall’adenovirus di uno scimpanzé esce infatti dai lavoratori di Pomezia dell’azienda. A giugno, il ministro della Salute italiano, Roberto Speranza, oltre ad aver firmato la “Inclusive vaccines allianceeuropea” con Germania, Francia e Paesi Bassi per assicurarsi le forniture, ha anche stretto un accordo diretto con la stessa AstraZeneca (le cui dosi per tutta Europa dovrebbero essere infialate nella sede della Catalet di Anagni).

Poi ci sono tre società cinesi la CanSino, la Sinopharm che lavora in collaborazione con l’Istituto di prodotti biologici di Wuhan (città da cui l’epidemia si è diffusa), e la Sinovac. Dalla Cina escono poche informazioni e ben coperte, e come nel caso dello slancio russo, si marca anche in questa situazione la sostanziale differenza dell’impianto valoriale dell’approccio alle questioni del mondo che hanno gli Stati di diritto e gli autoritarismi. “In questa corsa per chi arriva primo, questo vaccino presenta una caratteristica che non sarebbe possibile nella ricerca occidentale: l’agenzia del farmaco russo ha autorizzato l’emissione in commercio in Russia non avendo completato le fasi di studi clinici“, spiegava ieri su queste colonne Fabrizio Landi, presidente della Fondazione Toscana Life Sciences, toccando un’altra differenza: quella sulle regole.

“Perché il mondo si riprenda più velocemente deve riprendersi insieme, perché è un mondo globalizzato: le economie sono intrecciate. Parte del mondo o pochi paesi non possono essere un rifugio sicuro e riprendersi da sole”, ha commentato Tedros Adhanom Ghebreyesus, l’etiope che guida l’Oms — in questi mesi accusato di pendere troppo verso Pechino. Su tutto, un problema tecnico, evidenziato in un‘analisi preparata due settimane fa da Morgan Stanley, sta nelle reali capacità produttive delle varie aziende lanciate sul vaccino. Eccezion fatta per le cinesi e per l’istituto russo, i cui dati reali sono opachi, pare  che soltanto Moderna, Sanofi e Johnson & Johnson avrebbero la forza di produrre un miliardo di fiale all’anno. Si stima che per coprire l’intera popolazione servirebbero nove miliardi di dosi.

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