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Così il governo ha fatto rete (unica). Grazie a Cdp e… La versione di Cerra

Come in ogni buon film, l’incipit fa la differenza. Giusto dunque festeggiare per il compromesso raggiunto fra Tim e Open Fiber, ma il cammino per la rete unica è appena iniziato, avvisa Rosario Cerra, economista, fondatore e presidente del Centro economia digitale (Ced).

Cerra, quest’accordo fa contenti tutti?

Diciamo che è un inizio interessante. Come in ogni bel film, un buon inizio non basta. C’è in ballo il futuro socio-economico del Paese. Dopo un’intesa così, serve una realizzazione eccellente. E una governance pubblica importante, operativa. Qui non si tratta di un’infrastruttura come Terna, che è già funzionante e a pieno regime, ma di qualcosa da costruire ex novo.

Sicuri che il monopolio non rientra dalla finestra?

Siamo di fronte a un unicum, che non ha paragoni in Europa. Dovremmo evitare la logica del monopolio, che non produce mai performance, per far spazio a una logica di gestione di policy infrastrutturale, con un grande presidio pubblico.

La nuova governance può garantire la terzietà?

Formalmente è sufficiente. Sul piano sostanziale, tutto dipenderà da come sarà esercitata. Conta molto la pratica. Chi ha esperienza di governance aziendale sa che c’è sempre un solco fra costituzione scritta e reale.

Anche perché mancano diversi dettagli. Sui poteri, le deleghe…

Per non parlare delle sanzioni, che pongono i veri limiti. E soprattutto manca la definizione dei modelli di business.

Tim e Open Fiber comunque hanno motivo di festeggiare.

Entrambe hanno senz’altro ragioni per farlo. L’accordo permette di risolvere questioni in sospeso. Per Tim la partita per la rete decide il destino di una grande mole di dipendenti e di una parte della capitalizzazione. Per Open Fiber rappresenta un passo avanti necessario per lo sviluppo della Ftth (Fiber to the home). Certo, questi accordi comportano sempre compromessi, è difficile trovare una soluzione che faccia contenti tutti.

Un compromesso cercato, fra gli altri, dal ministro Roberto Gualtieri. Soprattutto sull’offerta del fondo americano Kkr per una parte della rete secondaria di Tim.

Si è fatto forse un polverone inutile. Tenere fuori i fondi di investimento è complicato. Si tratta di grandi attori internazionali, che gestiscono il risparmio privato e una parte di quello pubblico. Bisogna ovviamente aver chiaro qual è l’obiettivo di questi fondi, non sempre coincidente con quello pubblico.

Il risultato molto deve alla mediazione di Cassa depositi e prestiti (Cdp)…

Cdp sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nelle dinamiche economiche italiane. È l’unico soggetto che può farlo in questa fase e credo che questo suo ruolo vada rafforzato, sulla rete unica ha fatto un lavoro egregio. Così come Tim: sapevamo che Gubitosi era un buon manager, qui ha confermato di avere visione strategica e un serio presidio operativo.

In un’intervista al Sole 24 Ore il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli dice che l’accordo serve a riparare una privatizzazione fatta male, quella di Tim.

Sono totalmente d’accordo con lui. Non solo la privatizzazione di Tim è stata fatta male, ma anche senza una ratio economica, una visione di governance. In altri Stati Ue, a partire dalla Germania, lo Stato ha mantenuto una quota. Oggi ci troviamo a rincorrerli.

Patuanelli parla di “una società delle reti e delle tecnologie”, compresa la rete 5G. Possono stare insieme?

Sulla rete 5G c’è un altro problema di fondo: gli investimenti. Gli operatori hanno pagato carissima la rete due anni fa.

L’asta per le frequenze del 2018 fu da record: quasi sei miliardi di euro.

Appunto. Ora gli operatori si attendono ritorni record, altrimenti finiscono i soldi per gli investimenti, e si corre il rischio di non avere i servizi. Le infrastrutture funzionano se dall’altra parte c’è un’offerta e una domanda che viene stimolata.

Torniamo all’accordo. Rischia la stangata del regolatore Ue?

Direi di no. Il regolatore europeo si sta sempre più orientando su quello che succede a valle delle reti piuttosto che a monte. Non penso si corra il rischio.

È un’estate di grande riassetto del capitalismo italiano. Non solo rete unica, anche nel mondo bancario e industriale si registrano movimenti senza precedenti in questi mesi post-lockdown. Anche qui, la Cdp fa da mediatore di ultima istanza.

Viviamo una fase in cui il capitalismo italiano deve essere aiutato. Negli anni è stato penalizzato non poco da un patto non scritto di non ingerenza della politica in una parte dell’economia di mercato. Oggi non si può più ragionare a compartimenti stagni.

Problemi di scala?

Anche. Sono vent’anni che non cresciamo in produttività, siamo pieni di Pmi eccellenti ma al Paese mancano le grandi imprese. Le grandi aziende sono quasi tutte partecipate, penso a fiori all’occhiello come Eni, Enel, Leonardo. Il nuovo ruolo di Cdp va letto in quest’ottica. Sta cercando di compensare un’assenza, per fortuna.

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