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Vi racconto cosa c’è dietro la tregua tra i democratici. Parla Larry Sabato

New York – È l’anti-trumpismo che tiene uniti i democratici, così come non lo sono stati nel 2016. L’analisi porta il nome di Larry Sabato, politologo di orientamento dem il quale alla luce della prima giornata di convention del partito dell’Asinello insiste nel dire che Donald Trump, “spesso definito un divisore, è in realtà un unificatore”, un “unificatore dei democratici”.

Sentito da Formiche.net il professore – docente di politica all’University of Virginia, fondatore del Center for Politics (al medesimo college) e “architetto” di Crystal Ball, sito web con analisi e proiezioni elettorali – spiega che “l’attuale amministrazione Usa è stata così incredibilmente pessima da una prospettiva dem, e il presidente stesso è così disgustoso, che le fazioni del partito hanno sostanzialmente accettato di congelare le loro divergenze e rimandare le battaglie a dopo il 3 novembre”.

Insomma, come fanno notare diversi osservatori, il messaggio di coesione che il partito vuole inviare dalla prima convention virtuale della storia americana in realtà è più che altro una tregua. Con l’ala moderata e quella più progressista che sono davvero unite soltanto nella lotta contro Trump, mentre rimangono distanti su quasi tutto il resto. Sabato, da parte sua, ribadisce che “ovviamente le fazioni nel partito esistono ancora”, ma “Hillary Clinton correva contro un teorico presidente Trump, Biden invece corre contro il vero presidente Trump, con alle spalle quattro anni alla Casa Bianca, e questa è la differenza”.

Proprio alla vigilia della kermesse al termine della quale l’ex numero due di Barack Obama accetterà ufficialmente la nomination, però, un sondaggio della Cnn ha rivelato come il suo vantaggio si sia ridotto notevolmente rispetto a giugno: il ticket Biden-Harris ha ora il 50% dei consensi, mentre quello Trump-Pence il 46%. Per Sabato non bisogna guardare una sola proiezione, ma sottolinea che “la media dei sondaggi è Biden di +8%, questa è corretta”. Tuttavia, “negli stati chiave in cui si decideranno le elezioni, il vantaggio di Joe si riduce al 4-5%, un distacco limitato e non insormontabile per Trump”.

La partita, quindi, è ancora tutta da giocare, e proprio per questo il Comandante in Capo ha deciso di organizzare in questi giorni numerosi appuntamenti in diversi “swing states”, con l’obiettivo di oscurare la convention democratica. Ieri è stato in Minnesota e Wisconsin, mentre oggi vola in Iowa e in Arizona, dove tornerà a cavalcare uno dei suoi cavalli di battaglia sin dalla campagna elettorale del 2016, ossia il tema dell’immigrazione e della sicurezza alle frontiere. Giovedì, invece, sarà in Pennsylvania e parlerà vicino a Scranton (dove è nato Biden) alla stessa ora in cui il rivale pronuncerà il discorso di accettazione della nomination.

Resta da vedere anche quale sarà il valore aggiunto della nomina di Kamala Harris come aspirante vice presidente dell’Asinello: di certo, la scelta della prima donna di colore (e terza in generale) a correre nel ticket per la Casa Bianca, ha portato un’iniezione di fiducia (oltre che un’accelerata nella raccolta fondi), molto importante per un candidato che sino ad ora non è mai davvero riuscito a galvanizzare gli elettori. “Gli americani votano per il presidente, non per il vice presidente – dice da parte sua Sabato – Harris aiuterà a stimolare l’affluenza alle urne tra tre gruppi dem chiave: neri, asiatici-americani e donne”.

“Quando sei il frontrunner, come Biden, vuoi un vice che sia un buon politico, ecciti le truppe e, soprattutto, non distolga l’attenzione con i suoi problemi o con i suoi programmi”, conclude. “Questo è Kamala Harris”.

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