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La crisi birmana e l’Occidente al bivio. L’analisi di Pelaggi

Gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone e l’Australia e le altre democrazie occidentali devono decidere se accettare il colpo di Stato dei generali. La scelta di un non intervento porterebbe il Myanmar sempre più vicino a Pechino, ma bisogna sottolineare come si tratterebbe di scelta di campo dell’Occidente, non di una strategia cinese. L’analisi di Stefano Pelaggi, docente presso l’Università di Roma La Sapienza

Il primo febbraio 2021 le forze militari birmane hanno arrestato l’intera leadership della Nation League for Democracy (NLD), il partito che aveva vinto le elezioni del novembre 2020, tra cui tutti gli eletti che avrebbero giurato il giorno successivo e la ex leader del paese del Sud est asiatico, Aung San Suu Kyi.

L’accusa per la dirigenza della NLD è di frode elettorale, le consultazioni si sono svolte in maniera libera secondo i principali osservatori internazionali, mentre la Lady, il nome con cui i birmani chiamano Aung San Suu Kyi, è stata accusata della detenzione illegale di due apparecchi per la trasmissione, dei walkie talkie apparentemente importati illegalmente.

Entrambe le accuse sono palesemente ridicole, anche i comunicati con cui le principali aziende telefoniche del Paese hanno giustificato il blocco di Facebook sono involontariamente comici. Il social network è stato di fatto oscurato in Myanmar per “evitare la circolazione di fake news e per garantire la stabilità nazionale e la sicurezza dei cittadini”. Nei giorni immediatamente successivi anche Twitter ha subito la stessa sorte e l’accesso a internet è spesso bloccato, mentre anche i programmi di video conferenza come Zoom sono di difficile accesso. La rete, in particolare Facebook che ha una enorme importanza nella vita quotidiana dei birmani sia come sistema di messaggistica sia per la diffusione delle notizie, è stata il veicolo principale del processo di democratizzazione e della vittoria della NLD nel 2015.

Il blocco di internet non ha fermato le proteste, ovunque nel paese si svolgono quotidianamente delle manifestazioni contro il golpe dei militari. Il clima sembra molto diverso da quello dello scorso decennio, i birmani hanno vissuto con grande entusiasmo l’evoluzione democratica del paese. La figura della Lady gode di un supporto enorme tra i diversi strati della popolazione e i birmani sembrano decisi a difendere le libertà civili recentemente conquistate. Nelle proteste risuonano slogan che esortano la polizia a condividere le ragioni della piazza, la Tatmadaw, il nome con cui sono conosciute le forze armate birmane, sembrano esitanti di fronte all’inaspettata reazione di una popolazione che nei decenni precedenti era stata costretta in un anacronistico regime autoritario. Internet funziona tuttora ad intermittenza, i social network restano talvolta inaccessibili, le forze dell’ordine si sono limitate a mantenere il controllo delle piazze senza azioni repressive e il numero degli arresti rimane limitato, circa 160 attivisti.

Le condanne internazionali sono state numerose ma la reale efficacia delle dichiarazioni dei capi di stato occidentali non è meno risibile dei comunicati dei generali birmani. Il Paese si trova di fronte a un bivio e la strada scelta dalla Tatmadaw porta in maniera decisa verso Pechino. L’influenza della Repubblica Popolare cinese in Myanmar è enorme, il Paese rappresenta per Pechino il naturale sbocco nel Golfo del Bengale e nella Birmania del nord ci sono diversi gruppi di etnia cinese che dispongono di potenti milizie armate, dei veri e propri eserciti. Considerare l’azione dei militari birmani come direttamente collegata alla volontà del Partito Comunista cinese, una circostanza frequentemente citata dalla stampa italiana, è un errore o meglio una semplificazione eccessiva. La rappresentazione della recente storia del Myanmar in Occidente è costellata di numerose semplificazioni, dalle immaginate atrocità della giunta militare alla beatificazione di Aung San Suu Kyi sino alla rapida discesa della Lady allo stesso livello dei generali per le violazioni dei diritti umani nello stato del Rakhine. La volontà cinese dietro il golpe è solo l’ultima delle costruzioni immaginarie della stampa occidentale, la necessità principale di Pechino è quella di mantenere un rapporto solido con il governo birmano. Il generale Min Aung Hlaing aveva incontrato i vertici della diplomazia cinese appena qualche settimana prima del golpe ma non bisogna dimenticare che proprio Pechino era stata il primo sponsor di Aung San Suu Kyi dal 2013 in poi. Il ruolo della Cina nella politica birmana rimarrà cruciale e la necessità primaria di Pechino è quello di mantenere una relativa calma nel Paese.

La crisi birmana pone l’Occidente di fronte a un importante bivio, servono azioni concrete per generare un possibile cambiamento. Le sanzioni economiche in Myanmar si sono dimostrate inefficaci per risolvere i problemi, le conseguenze degli embarghi hanno esclusivamente impoverito la popolazione. Gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone e l’Australia e le altre democrazie occidentali devono decidere se accettare il colpo di stato dei generali. La scelta di un non intervento porterebbe il Myanmar sempre più vicino a Pechino, ma bisogna sottolineare come si tratterebbe di scelta di campo dell’Occidente non di una strategia cinese.

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