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Un razzo non è solo un razzo. Gli effetti in Iran degli attacchi alle basi irachene

I razzi che partono verso le basi occidentali in Iraq vengono da quelle milizie filo-iraniane che puntano a mantenere uno stato di tensione perenne. Ma dietro si muovono gli equilibri del potere a Teheran, tra accordo sul nucleare, elezioni e successione al malato Khamenei

Negli ultimi cinque giorni tre basi militari irachene che ospitano soldati occidentali (ovvero americani) sono state colpite dal lancio di razzi simili ai Katiuscia. Armi di dimensioni e forza medio-piccola, precisone scarsa, facile utilizzo e trasporto: difficilmente producono danni importanti, ma hanno come effetto quello di mettere pressione e creare tensione. A usarle sono solitamente milizie sciite irachene collegate ai Pasdaran. Quando tre giorni fa le forze di sicurezza irachene hanno ritrovato i lanciatori usati per sparare quattro razzi contro la base Balad (64 chilometri a nord di Baghdad) sui mortai da 107mm c’erano sticker con la faccia di Qassem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis.

Il primo, un generale iraniano dall’aurea epica, vicinissimo alla Guida Suprema, ideatore e gestore del piano espansionistico con cui i Pasdaran pensano di costruire influenza in Medio Oriente attraverso la creazione di un network di partiti/milizie controllati; il secondo, un pezzo di quel network, comandante di tutte le milizie irachene connesse con la teocrazia iraniana. Entrambi sono stati uccisi nel gennaio del 2020: un missile Hellfire sparato da un drone americano centrò il convoglio in cui i due viaggiavano, appena fuori dell’aeroporto di Baghdad.

I razzi Haseb/Fadjr-1 sparati contro base Balad (e nel settore dell’aeroporto internazionale di Baghdad dove si trovano acquartierati soldati americani, e alla base Ain Al Assad) non sono una novità. Hanno un branding simile a quello della Muqawama palestinese e servono a mantenere attiva la cosiddetta resistenza contro la presenza americana in Iraq. Almeno nella narrazione: di fatto sono il modo con cui i Pasdaran e i gruppi collegati si esprimono. Ingaggio armato a bassa intensità, costante, utile per mantenersi attivi (nella narrazione, e dunque a tutela dei propri interessi) e per intralciare le attività in corso a livello diplomatico che potrebbero produrre un loro ridimensionamento.

Basta pensare che in questi giorni sta diventando più concreta la possibilità di una ricomposizione dell’accordo sul nucleare Jcpoa, con il rientro americano nel sistema di contatto con Teheran. Tutto mentre i pragmatico-riformisti cercano una terza vittoria elettorale di fila (complicatissima) alle presidenziali. E mentre l’Iran “di governo” cerca di muoversi sul piano diplomatico accettando colloqui di intelligence con l’Arabia Saudita e con gli Emirati Arabi Uniti — dove il leader dei pragmatici, Javad Zarif, candidato a presidente, potrebbe addirittura andare in visita.

Tutto questo è inconcepibile per l’Iran “di lotta”, anche perché percepisce che è una larga parte degli iraniani a volere maggiore apertura e una linea meno ideologizzata. Linea che anche alcuni dei conservatori sposano. Lo scontro è politico e interno alla Repubblica islamica, riguarda la presidenza e il governo del paese, ma anche l’inizio della battaglia per la leadership teocratica, dato che la guida Ali Khamenei ha una condizione di salute tutt’altro che buona.

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