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Competizione in corso. L’agenda della Nato tra Russia e Cina

Di Niccolò Petrelli

La Nato lancia un’ambiziosa agenda verso il 2030, articolata secondo tre direttive principali: contenimento della Russia, attenzione alla Cina e mantenimento della superiorità tecnologica. Ma non mancano le difficoltà, tra penuria di risorse, fragilità interna e obiettivi diversificati. Per Europa Atlantica, l’analisi di Niccolò Petrelli, docente di Studi strategici all’Università Roma Tre

Il primo vertice Nato dell’era di Joe Biden si è concluso qualche giorno fa e ad un primo sguardo sembra che gli atlantisti su entrambe le sponde dell’Oceano possano finalmente celebrare la fine del buio periodo sancito dalla presidenza di Donald Trump e il rilancio dell’Alleanza. Il lungo comunicato, pubblicato a conclusione dei lavori del summit, articola un’ambiziosa agenda per i prossimi anni, Nato 2030, A Transatlantic Agenda for the Future, le cui caratteristiche principali sono tre. Anzitutto, il documento ribadisce l’approccio intransigente articolato già nel vertice del Galles del 2014 nei confronti della Russia. In secondo luogo, adotta una posizione rigida, seppure non apertamente ostile, nei confronti della Cina, definita come un latore di sfide sistemiche in aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza. Da ultimo, il documento ribadisce altresì la volontà dell’Alleanza di mantenere un’indiscussa superiorità in ambito tecnologico, nonché di posizionarsi in prima linea nella gestione delle implicazioni di sicurezza internazionale dei cambiamenti climatici. In poche parole, la nuova agenda adottata dalla Nato amplia gli ambiti di competenza dell’organizzazione al punto quasi di preconizzare una sorta di trasformazione da alleanza militare regionale a centro di coordinamento delle politiche di sicurezza della comunità transatlantica.

Nonostante la coesione politica non sembri mancare, perseguire la visione e gli obiettivi delineati nell’ultimo vertice potrebbe complicare in maniera significativa la strategia dell’Alleanza. Ciò è allarmante soprattutto alla luce delle possibili ricadute negative sui lavori preparatori alla redazione del nuovo Concetto Strategico, che sarà presentato l’anno prossimo. La strategia è il processo mediante il quale i fini vengono collegati ai mezzi, le intenzioni alle capacità, secondo una logica di bilanciamento di rischi e costi. Il funzionamento di tale processo è governato dal quello che potremmo chiamare il punto di partenza, le condizioni esistenti al momento in cui la strategia viene formulata, non dal suo punto di arrivo, ovvero lo stato di cose desiderato. Inoltre, è opportuno tenere presente che l’output della strategia non necessariamente corrisponde agli input. La strategia, di per sé un’impresa difficile, nel caso della Nato è resa ancor più complicata dalle dimensioni dell’alleanza e la conseguente necessità di armonizzare gli obiettivi, i mezzi, nonché le percezioni di costi e rischi, di trenta stati.

Al momento, i leader dei paesi dell’Alleanza condividono una situazione di: penuria di risorse finanziarie (dovuta in particolare alla crisi ingenerata dalla pandemia Covid-19); fragile capitale politico (essendo in molti casi soggetti a crescenti vincoli interni dovuti a processi di polarizzazione politica); interessi ed obiettivi “sistemici” divergenti; percezioni differenti dei rapporti con i rivali Russia e Cina.  In tali condizioni input come rinnovata coesione, disponibilità ad assumere impegni e dichiarata solidarietà non appaiono certo sufficienti a gestire con successo i trade-off strategici che il perseguimento degli ambiziosi obiettivi articolati nel comunicato finale del summit potrebbe far emergere, tra cui tre spiccano in modo particolare.

Il primo trade-off riguarda il focus principale dell’organizzazione. Gli Usa percepiscono la Cina come la sfida strategica di maggior rilievo e la Nato come la più importante componente del proprio sistema di alleanze e stanno visibilmente tentando di riorientare il focus strategico dell’Alleanza in tal senso. La minaccia posta da Pechino è seria, e riguarda non solo la modernizzazione delle forze armate e il rafforzamento della postura militare rispetto a Taiwan, ma soprattutto la strategia cinese di “fusione civile-militare”, volta a creare un vantaggio competitivo di lungo periodo attraverso l’integrazione di misure di sviluppo economico civile e la base tecnologico-industriale della difesa. La Nato tuttavia è nata come strumento per proteggere l’Occidente democratico dalla minaccia posta dall’Urss. I membri europei dell’Alleanza (in particolare alcuni tra i più influenti, economicamente e militarmente) percepiscono ancora la Russia come la principale minaccia contro cui doversi difendere. Questa non è invero seria come lo era durante la Guerra fredda, ma è comunque una minaccia complessa, che include operazioni “grey-zone”, interferenze politiche di vario tipo, nonché intimidazioni nucleari. Appare irrealistico, data l’entità e la natura delle minacce poste da Cina e Russia, pensare che la Nato possa affrontarle entrambe simultaneamente in maniera adeguata senza aumentare sensibilmente i rischi, su un fronte o l’altro, oppure senza incorrere in un significativo aumento dei costi connessi allo sviluppo di una strategia di lungo periodo.

Il secondo trade-off che sembra profilarsi qualora la Nato decidesse di perseguire gli ambiziosi obiettivi sanciti nel recente vertice riguarda la struttura delle forze armate dell’Alleanza. Da anni ormai sono emerse complicazioni e difficoltà nel processo di pianificazione delle forze Nato, dovute alla necessità di armonizzare i requisiti operativi dei cosiddetti “fianco est” e “fianco sud”. L’aggiunta di un eventuale “fianco dell’estremo est”, ovvero la Cina, con requisiti operativi ancora differenti, rischia di esasperare tali difficoltà e complicare considerevolmente il già difficile processo di pianificazione integrata quinquennale. Qualora la Nato aspirasse ad operare simultaneamente in due teatri, ad esempio in risposta a una crisi Usa-Cina nel Pacifico occidentale e a una simultanea aggressione russa nel Baltico, ciò richiederebbe anche significativi miglioramenti nei meccanismi di integrazione tra l’Alleanza e l’Unione europea. L’incorporazione, sancita dal comunicato finale del vertice, di considerazioni sul cambiamento climatico nella pianificazione militare, generazione di capacità, esercitazioni e protezione civile, rappresenterà un elemento di ulteriore difficoltà per via del presumibile aumento dei costi che tenderà ad ingenerare.

L’ultimo, ma forse il più importante, tra i trade-off che potrebbero emergere nei prossimi anni è quello tra gli obiettivi declinati nella nuova agenda Nato e lo sviluppo bilanciato dell’alleanza. Coinvolgere in maniera diretta la Nato nella competizione con la Cina implica con ogni probabilità l’ulteriore accentuazione dello squilibrio di forza tra Usa e membri europei dell’alleanza nonché, per quei 21 paesi membri sia della Nato che dell’Ue, posporre o ridimensionare la portata di misure tese a rafforzare l’autonomia strategica e la sovranità tecnologica dell’Unione. E’ infatti ragionevole supporre che l’amministrazione Biden non solo chieda sforzi più rilevanti ai venti membri della Nato che ancora spendono meno del 2% del Pil per la difesa (soprattutto in materia di ricerca e sviluppo tecnologico), ma tenti anche di tracciare la traiettoria di sviluppo delle capacità (militari e no) degli alleati al fine di assicurarsi che esse siano complementari e funzionali alle iniziative americane. Gli alleati europei, come già lasciano presagire le dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, reagirebbero probabilmente cercando un compromesso al ribasso sulle richieste Usa. Il più significativo rischio connesso al verificarsi di una situazione di questo tipo sarebbe il perpetuarsi o peggio l’aggravarsi dell’attuale squilibrio di forze, ovvero una sovraesposizione degli Usa e un’imbarazzante dipendenza dei membri europei dell’Alleanza dal potere statunitense.

Il rilancio dell’atlantismo operato nel corso dell’ultimo summit rappresenta senza alcun dubbio un elemento positivo, e non si può negare che gli alleati abbiano sviluppato una visione di ampio respiro, diagnosticando con puntualità e precisione tutte quelle che potrebbero essere le sfide del futuro. Guardando all’orizzonte 2030 sorge tuttavia il dubbio che tale visione possa rivelarsi oltremodo ambiziosa ed i suoi obiettivi troppo impegnativi. Il rischio è che i trade-off discussi sopra possano alimentare fratture e divergenze fra gli alleati, minando in tal modo la coesione appena ritrovata. Gestire con successo i rischi ed i costi connessi all’implementazione dell’agenda articolata nel vertice del 14 Giugno richiederà, da una parte, calibrazione delle aspettative, dall’altra, chiarezza circa la volontà e l’effettiva possibilità di assumere i relativi impegni. “Fatta” la nuova visione della Nato, ora bisogna “fare” la strategia.



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