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Le imprese all’uscita della crisi. Conservazione o selezione

Di fronte all’incongruenza tra “conservazione” e “selezione” dei migliori si potrebbe sostenere che si tratta di una logica dei due tempi. Nell’immediato occorre proteggere l’esistente nell’attesa che con l’aiuto pubblico si consolidi, mentre nel medio periodo è opportuno dare più spazio alla selezione dei più capaci di competere e crescere nel mercato con le proprie gambe. Ma… L’analisi di Zecchini

Gli ultimi dati Istat sulla crescita economica nel secondo trimestre appaiono incoraggianti per la rapidità del recupero delle attività (+2,7% rispetto al precedente trimestre) e perché lasciano presagire che possa continuare nella seconda metà dell’anno, colmando la distanza ancora esistente dai livelli pre-crisi. Rispetto al secondo trimestre del 2019, in termini reali il prodotto interno si colloca a un livello più basso del 4%, ma continuando a questi ritmi si può prevedere che nel primo trimestre del 2022 possa superare il traguardo raggiunto prima della crisi.

A favore giocano alcuni fattori, quali l’assenza di gravi restrizioni sanitarie per effetto dell’alta quota di popolazione che si è immunizzata, la ripresa della domanda delle famiglie, l’espansione degli investimenti e del commercio mondiale e i primi benefici del vasto Pnrr varato dal governo col sostegno dell’Ue. Di contro si pongono, almeno per i prossimi trimestri, alcuni ostacoli rappresentati in primo luogo dai diversi colli di bottiglia emersi negli approvvigionamenti di importanti input produttivi, quali i semiconduttori e le materie prime, che hanno costretto a rallentare se non a sospendere importanti produzioni, specialmente nel settore automotive. L’effetto si è manifestato anche in una rapida scalata dell’inflazione che, essendo andata nell’area dell’euro ben oltre l’obiettivo del 2%, fa temere un’anticipata riduzione dell’accomodamento monetario.

Non si può, tuttavia, trascurare di considerare lo stato in cui il sistema delle imprese sta uscendo dalla crisi sanitaria, che può porsi come una remora importante alla ripresa, almeno nel breve periodo. Attualmente, ma anche nel passato, nel formulare programmi di politica economica e previsioni si assume per scontato che di fronte all’espansione della domanda privata e pubblica, accompagnata da straordinari incoraggiamenti finanziari attraverso abbondante liquidità ed insignificante costo del denaro, produzione ed investimenti siano in grado di tenere il passo soddisfacendo a sufficienza le richieste. Ma nella realtà così non è, come dimostrano le diverse perturbazioni che hanno colpito le forniture, l’occupazione e la stabilità del sistema delle imprese e dei prezzi.

Il ritorno alla crescita dovrebbe gettare luce sulle effettive condizioni in cui le imprese versano dopo lo shock della recessione e sulla capacità di rinnovamento e rigenerazione del loro sistema. Le evidenze statistiche offrono un quadro costellato di incertezze e sfide. La crisi ha infierito particolarmente sulla massa delle Pmi, soprattutto quelle di minori dimensioni, e su quelle operanti nei servizi e orientate principalmente a servire il mercato interno. L’ultimo rapporto dell’Istat sull’argomento mette a nudo la debolezza del sistema: il 45% circa delle imprese è strutturalmente a rischio di sopravvivenza e probabilmente non in grado di superare la crisi, nonostante i vari sostegni offerti dalle autorità.

A fare da contrappeso sta l’11% che si dimostra solido e contribuisce per più di due terzi al prodotto nazionale e per circa la metà dell’occupazione. Nell’insieme del sistema, un quinto ha reagito riorganizzando profondamente l’azienda e un quarto ha introdotto importanti innovazioni di prodotto e di marketing.

La crisi tende, quindi, a espellere dal mercato molte imprese vulnerabili e a determinare una crescente concentrazione dell’offerta in un minor numero di aziende più resilienti oppure più protette. In qualche misura ne soffre la concorrenza di mercato, già piegata dalla predominanza dei giganti del web che da se stessi danno forma al mercato e lo regolano secondo i loro criteri. Ne dovrebbe soffrire anche la possibilità di far nascere nuova imprenditoria e di farla consolidare. Lo si è visto fino al primo trimestre dell’anno nell’accelerazione della tendenza pluriennale al declino della demografia d’impresa, ma nel secondo trimestre vi è stato un consistente rimbalzo nella creazione d’imprese, che è prossima a raggiungere il livello del 2019.

Appare anomalo, invece, l’esiguo numero delle cessazioni, che risulta di almeno un terzo al di sotto dei livelli degli anni pre-pandemia. Se ne può arguire che vi sia una massa di aziende tenute in piedi con puntelli pubblici, che ha scarse possibilità di sopravvivere quando si ritornerà in condizioni normali. L’aiuto pubblico è risultato altresì determinante nella costituzione di startup innovative, che non ha conosciuto sosta nel biennio della crisi, proseguendo nel secondo trimestre a ritmi elevati (8,1%). Resta, tuttavia, una componente marginale del sistema, con 13,6 mila aziende in totale.

Oltre alla crisi, la digitalizzazione e la quarta rivoluzione industriale in corso concorrono ad operare una selezione tra le imprese a favore delle più capaci di competere rinnovandosi ed adattandosi alla nuova realtà economica, mentre incidono poco su quelle al riparo della concorrenza. I segni tra quelle più resilienti e dinamiche si rinvengono nell’accentuarsi nell’ultimo biennio del ricorso agli strumenti digitali per superare le restrizioni sanitarie, alla finanza alternativa al credito bancario e alla riorganizzazione delle filiere di approvvigionamento.

In questa tendenza si inserisce in maniera ambivalente l’intervento pubblico, quale si è visto finora. Da un lato, impegna crescenti risorse nell’incentivare l’ammodernamento delle aziende, la ricerca e l’innovazione industriale, la riorganizzazione delle aziende e delle filiere, la proiezione sui mercati esteri e il potenziamento delle infrastrutture di informazione e comunicazione. Dall’altro lato, tende a salvaguardare le imprese esistenti con aiuti di vario tipo, che spaziano dalle garanzie sui crediti bancari, alle prese di partecipazione nelle società e nelle medie imprese, l’assistenza alla soluzione delle grandi crisi aziendali, il blocco delle procedure fallimentari, gli irrigidimenti nella disciplina dei contratti di lavoro e la riforma delle norme sul fallimento.

L’approccio si presenta, pertanto, col duplice obiettivo di preservare l’esistente e di favorire il rinnovamento e il passaggio nella nuova economia, imperniata su rinnovamento tecnologico e asset intangibili (proprietà intellettuale ed industriale). Quale dei due orientamenti sarà prevalente non è oggi chiaro perché si accavallano provvedimenti contraddittori che non offrono all’investitore privato una prospettiva affidabile.

Gli esempi di questa ambivalenza sono diversi, ma basta richiamarne i principali. Nell’anelito a proiettare il sistema economico nel futuro si destinano 30,6 miliardi del Pnrr e del Fondo complementare, ovvero il 13% delle risorse, alla digitalizzazione a beneficio delle imprese, 47,6 miliardi alla transizione ed efficienza energetica e 13 miliardi al potenziamento della ricerca nel rapporto con le imprese. In complesso, il 43,4% dei fondi programmati è diretto a rafforzare il sistema produttivo, a cui va aggiunta quella parte dei 31,5 miliardi allocati a infrastrutture che sono più direttamente funzionali a incrementare la competitività. Nella stessa direzione tendono i vari piani di settore, quali quelli per la Transizione 4.0, il 5G, cybersecurity, banda ultra-larga, energia, porti e l’alta velocità.

Per altro verso, per salvaguardare diverse componenti del sistema impresa, che sono in difficoltà, si sono introdotte diverse misure di protezione a carattere difensivo nei confronti dei meccanismi di selezione operati da mercati concorrenziali. Naturalmente, queste misure travalicano le necessità contingenti del fronteggiare gli effetti straordinari della recessione indotta dalla pandemia, perché si estendono al periodo successivo all’uscita dalla crisi.

La stessa cautela e il ritardo con cui si sta procedendo nel formulare la nuova legge annuale per la concorrenza mostra quanto sia arduo conciliare una maggiore apertura del sistema alle forze del mercato con la fragilità, gli squilibri gestionali, o la scarsa competitività di ampie porzioni del sistema produttivo. Una delle evidenze dell’approccio difensivo sta nell’esperienza dei cosiddetti “Tavoli di crisi” gestiti dal Mise. Si è approntata una nuova struttura tecnica al ministero per migliorare l’assistenza alle imprese nel trovare un percorso di uscita dallo stato di crisi. Qui la logica sottostante è quella di salvare in qualche modo i posti di lavoro, piuttosto che proteggere il lavoratore facilitando il suo passaggio ad altre attività, in evidente contrasto con le dichiarazioni iniziali del premier.

Ufficialmente sono in corso 87 tavoli, alcuni di recente formazione ed una buona parte aperti da anni, che coinvolgono circa centomila lavoratori. In realtà il numero delle aziende in crisi è di gran lunga superiore, perché le statistiche sui “Tavoli” non tengono conto di quelle chiuse per fallimento, di alcune grandi imprese, come Alitalia e Mps, né delle piccole. Non si tratta soltanto di crisi di settore che coinvolge tutte le principali imprese, come nel caso della siderurgia, perché in altri comparti produttivi si registrano oltre ad aziende in crisi quelle di successo, ad esempio nella meccanica, metallurgia ed elettrodomestico. La causa di fondo è, invece, la perdita di competitività nel confronto con altri Paesi o con altre imprese del settore, a cui non si è reagito tempestivamente con efficaci aggiustamenti, innovazioni e riconversioni.

Altre misure “difensive” hanno assunto la forma di un impegno diretto del soggetto pubblico nel condividere il rischio di impresa, investendo nel capitale di società traballanti per facilitarne il rilancio. Nella stessa categoria si può includere la concessione di incentivi per il rafforzamento del capitale finanziario dell’impresa. Analogamente, si è ampliata l’esecutività degli “accordi di ristrutturazione del debito ad efficacia estesa”, in anticipo rispetto all’entrata in vigore della nuova disciplina del fallimento, per forzarne l’applicazione anche ai creditori dissenzienti con l’obiettivo di assicurare la continuità aziendale. Si è altresì allargata la portata dei poteri speciali del golden power estendendoli a ogni settore ritenuto di rilevanza strategica per il Paese.

Da ultimo, per salvaguardare l’esistente il governo sta programmando di caricare nuovi oneri sull’investitore che intende chiudere un’azienda in Italia per spostarsi su iniziative imprenditoriali altrove. Si tende, in particolare, a renderlo responsabile delle ricadute occupazionali e produttive della chiusura per mezzo del vincolo a predisporre un piano per gestire esuberi e ricollocamenti di forza lavoro e a sopportarne i costi. In caso di inadempimento si applicherebbero sanzioni. È facile immaginare quanto disincentivante sia questo approccio per rilanciare la crescita nella fase attuale in cui è essenziale massimizzare gli investimenti.

Di fronte all’incongruenza tra “conservazione” e “selezione” dei migliori si potrebbe sostenere che si tratta di una logica dei due tempi. Nell’immediato occorre proteggere l’esistente nell’attesa che con l’aiuto pubblico si consolidi, mentre nel medio periodo è opportuno dare più spazio alla selezione dei più capaci di competere e crescere nel mercato con le proprie gambe. Ma questa logica, pur convincente, si scontra con un’esperienza ben diversa, che ha visto e continua a vedere imprese medie e grandi che non riescono negli anni ad affrancarsi dall’aiuto pubblico, ma con le loro pressioni sui governi riescono a prolungarlo per lunghi periodi con esiti disastrosi per una crescita sana del sistema. Nondimeno, solo tra qualche anno si vedrà quale dei due orientamenti sarà prevalente nella realtà e quali risultati avrà prodotto.

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