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Tutti vogliono la Difesa europea. Ma cosa manca?

Oltre i ministri Guerini e Di Maio, sono molti gli interventi che invocano la Difesa europea. Silvio Berlusconi, Emma Bonino, Romano Prodi, Marco Minniti, Claudio Graziano, Alessandro Profumo e tanti altri rilanciano il dibattito a partire dalla “lezione afgana”. Tra battlegroup e coalizioni di volenterosi, sono gli strumenti possibili a conquistare i riflettori. Ma è il Capo dello Stato Sergio Mattarella a segnare la direzione: prima di tutto serve una politica estera e di sicurezza comune

La Difesa europea è diventata mainstream. Da giorni si susseguono sui grandi media nazionali autorevoli interventi a favore di una maggiore integrazione continentale nel campo militare. Oggi Marco Minniti ed Emma Bonino, rispettivamente con un editoriale su La Repubblica e con un’intervista a Il Giornale, hanno rilanciato il tema, affrontato sabato sul Corriere della Sera da Silvio Berlusconi. Ci sono anche gli addetti ai lavori, come il generale Claudio Graziano, che segue il tema da anni in qualità di presidente del Comitato militare dell’Ue, intervistato sabato dal Sole24Ore, e Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo (tra i leader del dibattito lato industriale) e attuale presidente di Asd, l’associazione che riunisce le aziende europee del settore, intervistato ieri da La Stampa. Molti i politici che si sono espressi sul tema con lanci d’agenzia, compresi vertici di partito come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Si aggiungono ai diretti interessati dal dossier in ambito governativo, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (che sul Fatto Quotidiano di ieri ha parlato anche di “esercito comune”) e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, intervenuto mercoledì scorso su Il Messaggero partendo da un corsivo di Romano Prodi, e impegnato negli stessi giorni ad affrontare il tema con i colleghi europei a Lubiana, per poi volare a Washington e incassare la sponda americana di Lloyd Austin, capo del Pentagono. A Radio24 oggi ha parlato il sottosegretario agli Affari europei, Vincenzo Amendola, anche lui a chiedere all’Ue “un cambio di passo”.

Ad alimentare il dibattito è la crisi afgana e il drammatico epilogo di vent’anni di operazioni militari, l’impegno maggiore per molti Paesi europei (Italia in testa) dalla fine della Seconda guerra mondiale. Alla base delle diverse letture c’è la comune sensazione che l’Ue debba elevare il proprio livello d’ambizione sulla scena internazionale, essere più protagonista e capace di esprimere capacità credibili negli scenari di diretto interesse. Ad alimentare tale sensazione c’è la conferma dello stesso Joe Biden che gli Stati Uniti non saranno più “poliziotti del mondo”. Una postura che Washington persegue da anni (almeno da Barack Obama), ma che ora si è fatta più evidente con la crisi afghana. Una postura, tra l’altro, accompagnata dall’ormai tradizionale richiesta che gli Usa rivolgono agli alleati europei per una maggiore assunzione di responsabilità, veemente (ad esempio sul 2% del Pil da spendere in Difesa) nei quattro anni di Donald Trump. Non è certo un segreto che tra gli sponsor più convinti della Difesa europea diversi siano oltreoceano, desiderosi di vedere un Vecchio continente più capace di esprimere capacità credibili nel campo della Difesa. Certo, a patto (le famose 3D di Madeleine Albright) che ciò non si traduca in duplicazioni o sovrapposizioni con la Nato e che non risponda a una visione di “autonomia strategica” intesa come indipendenza dall’alleanza transatlantica.

È proprio questo uno dei punti dirimenti del dibattito, spesso concentrato sugli strumenti possibili (si rilancia da più parti l’idea di “battlegroup”) e poco sugli obiettivi che dovranno essere perseguiti e sugli interessi da difendere. A segnare la strada della discussione in tal senso è il messaggio del presidente (già ministro della Difesa) Sergio Mattarella al Forum di Cernobbio, che non parla mai di “difesa”, ma che spiega la “necessità di una politica estera e di sicurezza comune”, una materia “in cui la Ue si è mossa, sin qui, troppo timidamente”. D’altra parte, la politica di Difesa rappresenta strumento di politica estera. In altre parole, senza una politica estera comune (e dunque senza interessi condivisi) difficile poter parlare di difesa comune. 

Profumo sintetizza così la questione: “Mi sembra difficile parlare di difesa se non sono chiare le priorità condivise del suo uso”. Per questo, nota Graziano, l’attenzione maggiore è per lo Strategic compass, la bussola che dovrà dare all’Ue una vera “strategia”, intesa come individuazione di interessi da cui discendono obiettivi e per cui si mettono in campo strumenti. Fuorviante (per Guerini “romantica”) l’idea di un esercito comune, già scartata dalla presidente della Commissione (già ministro della Difesa di Germania) Ursula von der Leyen. Molti degli interventi di questi giorni sul tema ricordano che l’Unione ha già due battlegroup dal 2007, mai utilizzati. Molti evidenziano che la sfida è dunque “politica”. Per Bonino la chiave è superare il voto all’unanimità che permane sulla politica estera e di sicurezza comune, permettendo così agli Stati più determinati di procedere sul tema. Lo stesso spiega Minniti, che ricorda come su certi dossier “la tempestività della decisione determinante”, e propone dunque di “procedere per cooperazioni rafforzate”.

Il dibattito c’è ed è notevole, e la buona notizia è che l’Italia sembra esserne protagonista, complice il “momento” di Mario Draghi sulla scena europea e nei rapporti con l’alleato americano. In ambito Ue l’accelerazione sulla Difesa è attesa nel prossimo semestre a presidenza francese. Parigi non ha mai nascosto l’intenzione di guidare il progetto. Bisogna tenerne conto quando la sfida è individuare “interessi condivisi”.

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