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Dove va l’industria manifatturiera italiana

Una fotografia ottimistica della manifattura italiana è arrivata dal Centro studi di Confindustria. Giuseppe Pennisi, però, sottolinea tre criticità da prendere in considerazione, spesso sottolineate in incontri e conversazioni con imprenditori alla guida di aziende grandi e piccole

Sabato 20 novembre, il Centro Studi della Confindustria (CSC) ha pubblicato il consueto Rapporto annuale sugli scenari industriali. Quest’anno, lo studio è intitolato La manifattura al tempo della pandemia, la ripresa e le sue incognite, titolo quando mai appropriato così come è appropriato dare molto spazio al contesto internazionale, la cui evoluzione è analizzata in dettaglio nelle prime due parti del lavoro. Se c’è un rilievo da fare è che non c’è adeguato accento sull’estendersi dell’intervento pubblico nel settore della manifattura (come in altri) negli anni della pandemia. Tema, peraltro, a cui il settimanale The Economist dedica un editoriale ed un briefing di quattro pagine proprio nel fascicolo in edicola il 20 novembre. Riguarda tutto il mondo, ma in Italia forse più che altrove, e pone forti interrogativi su quando e come tornare ad una minore estensione della mano pubblica. Questo – ricordiamolo – sarà un argomento centrale della politica economica dell’Unione europea nel 2022, anno in cui si dovrà superare (e rinegoziare) l’attuale “regime transitorio” per gli aiuti di Stato; ciò ha importanti implicazione per l’Italia (si pensi agli impianti siderurgici di Taranto e non solo, ad Itala Trasporto Aereo ed ad a tante altre piccole e grandi vicende).

Andiamo alla fotografia. Nel corso del 2021 precisa il documento –  la manifattura italiana ha recuperato stabilmente i livelli di attività precedenti lo scoppio della pandemia, diventando uno dei principali motori della crescita industriale nell’Eurozona. In Germania e Francia, nonostante un calo meno drastico dei volumi di produzione nei mesi più critici del 2020, il pieno riassorbimento dello shock appare ancora lontano.

La performance industriale italiana è spiegata innanzitutto da una dinamica della componente interna della domanda che, grazie alle misure governative di sostegno ai redditi da lavoro prima e di stimolo alla spesa dopo, ha dato un contributo decisivo alla ripresa della produzione nazionale. Quindi – questo il rapporto non lo dice esplicitamente –  è la mano pubblica che ha guidato e sorretto la ripresa. A fronte di un fatturato estero che ad agosto del 2021 ha segnato un +2,8% in valore rispetto al picco di febbraio 2020, il fatturato interno ha registrato nello stesso arco temporale un +7,0%.

Un ruolo fondamentale è poi rappresentato dal basso grado di esposizione delle imprese manifatturiere italiane alle strozzature che stanno affliggendo le catene globali del valore in questo frangente. Con riferimento all’inizio del terzo e quarto trimestre del 2021, “solo” il 15,4% di esse ha lamentato vincoli di offerta alla produzione per mancanza di materiali o insufficienza di impianti, contro una media Ue del 44,3% e a fronte addirittura del 78,1% dei rispondenti in Germania.

La dinamica complessiva della demografia di impresa nel manifatturiero non ha quindi subito variazioni di rilievo per effetto della crisi pandemica, anche se il saldo tra iscrizioni e cessazioni continua ad essere negativo: la perdita cumulata tra il 2017 e il 2021 è stimata in oltre 37mila unità.

Molto eterogenea a livello settoriale la dinamica della produzione italiana nell’ultimo biennio. Bene, sotto la forte spinta alla digitalizzazione, il comparto dell’elettronica e, con il traino del boom degli investimenti pubblici e privati in costruzioni, tutti i comparti legati alla filiera dell’edilizia. Ancora male, per problemi di domanda e strozzature di offerta, i settori della moda e dei mezzi di trasporto. Segno negativo – in controtendenza rispetto alla dinamica osservata a livello medio globale – anche per la farmaceutica.

Gli scambi italiani di beni con l’estero, dopo il crollo registrato nel secondo trimestre del 2020, sono ripartiti in modo rapido e robusto, tornando nettamente sopra i livelli pre-crisi. Nei mesi giugno-agosto 2021, le esportazioni a prezzi costanti hanno superato del 2,6% i livelli di fine 2019 (+7,3% le esportazioni in valore). Positivo soprattutto l’andamento dell’export di input intermedi e di beni d’investimento, mentre è ancora parziale il recupero per i beni di consumo. Tra i beni d’investimento la crescita è trainata soprattutto dalle apparecchiature elettriche, mentre il recupero per la meccanica strumentale non è ancora completo.

Il maggiore dinamismo della manifattura italiana rispetto a quella delle altre principali economie europee si è riflesso in un aumento della sua quota sul totale dell’export Ue, che è cresciuta sia negli scambi intra-area sia in quelli verso il resto del mondo.

Sul fronte occupazionale, il rimbalzo della produzione industriale a partire dall’estate 2020 si è riflesso in un recupero significativo delle ore lavorate che, tuttavia, alla fine del secondo trimestre 2021 risultano ancora al di sotto dei livelli pre-pandemici (-4,2%). Nello stesso periodo, l’occupazione diretta del settore risulta invece diminuita di circa 42mila lavoratori al 2019 (-1,1%).

Nel 2020 vi è stato un massiccio ricorso ai prestiti bancari garantiti dallo Stato da parte delle imprese italiane (126 miliardi di euro le richieste fino a dicembre, di cui 97 miliardi erogati, tramite il Fondo di garanzia per le pmi), che ha invertito la tendenza decennale alla riduzione del peso del debito bancario sul totale del passivo e ne ha aumentato corrispondentemente l’onere. Parallelamente, si è ridotto il peso della copertura finanziaria assicurata dal capitale di proprietà.

Alla disponibilità dei finanziamenti bancari si è sommato un ampio ricorso al mercato delle obbligazioni. Nel complesso, includendo anche gli altri debiti finanziari verso terzi, il nuovo debito netto contratto dalle imprese manifatturiere italiane nel 2020 è stato pari a 4,1 punti di fatturato, rispetto ad appena 0,3 nel 2019.

Un’analisi realizzata dal CSC in collaborazione con l’Istat mostra che il sistema manifatturiero italiano all’alba dello scoppio della pandemia mostrava un’alta propensione all’investimento in innovazione: delle quasi 69mila imprese con almeno 10 addetti censite nel 2019, i due terzi hanno dichiarato di aver investito in progetti di innovazione. I risultati preliminari di un’analisi realizzata dal CSC in collaborazione con il gruppo di ricerca Re4it, relativa ai processi di backshoring in corso nella manifattura, rivelano che il fenomeno del rientro in Italia di forniture precedentemente esternalizzate non è marginale. Tra i rispondenti che avevano in essere rapporti di fornitura estera, il 23% ha già avviato, negli ultimi cinque anni, processi totali o parziali di backshoring, ossia di rientro in Italia OI settori maggiormente attivi sono stati alimentari, tessile e altre industrie manifatturiere. Al primo posto tra le motivazioni addotte per spiegare il fenomeno compare la disponibilità di fornitori idonei in Italia (il che significa che la passata esternalizzazione non ha determinato la scomparsa di reti di fornitura nazionale nell’ambito in cui opera l’impresa) e la possibilità di abbattere i tempi di consegna (il che implica che il ricorso alla fornitura nazionale è rimasto efficiente sul piano operativo).

Una visione tutto sommata rosea. In questa fase – in cui si profila una quarta fase della pandemia, non prevista ed in gran misura non prevedibile quando si prepara il rapporto – l’ottimismo è d’uopo, soprattutto per le imprese manifatturiere. Occorre, però, chiedersi se non manca nel documento una presa in considerazione adeguata di alcune criticità spesso sottolineate in incontri e conversazioni con imprenditori alla guida di aziende grandi e piccole.

La prima è la carenza di risorse umane, sia a livello ingegneristico sia a quello di perito industriale, per portare avanti la trasformazione tecnologica ed ambientale a cui l’Italia si è impegnata con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’industria potrebbe forse chiedere meno “garanzie” di finanziamento e meno tax expenditures allo Stato e partecipare ad un’espansione della formazione di ingegneri e tecnici ed ad un miglioramento della qualità, offrendo, ad esempio, un’ampia disponibilità per stage aziendali in Italia ed all’estero, nonché di borse di studio date, su base competitiva, a studenti meritevoli ma privi delle risorse finanziare necessarie.

La seconda è l’inadeguatezza del patrimonio infrastrutturale, elemento essenziale del Pnrr. Il miglioramento pone sfide enormi per l’industria, non solo quella edilizia. Sta alle pubbliche amministrazioni programmarlo ma alle imprese realizzarlo. Sarebbe utile delineare come si intende affrontarle.

La terza è la capacità organizzativa che viene fortemente messa alla prova dal miglioramento del patrimonio infrastrutturale e della transizione tecnologica ed ecologica. Aspetto la cui carenza è spesso stata un ostacolo.

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