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Fed e Bce, due scudi contro un’unica minaccia

L’inflazione non è più considerata temporanea, come dimostrato dalle decisioni di Fed e Bce. La prima ha accelerato la fine degli acquisti straordinari di titoli e ha aperto la strada ad aumenti nei tassi. La seconda ha ridimensionato il sostegno ai debiti del 2020 e non estenderà quelli di rifinanziamento bancario. L’analisi di Marcello Messori, professore di Economia europea presso la Luiss Guido Carli

La risposta di politica economica alla pandemia ha introdotto novità rilevanti nell’Unione europea e nell’area dell’euro: una politica molto espansiva della Banca centrale europea (Bce), che ha creato spazi per forti incrementi nazionali di spesa pubblica anche in Paesi ad alto debito e che – per la prima volta – si è combinata con importanti programmi di politica fiscale accentrata a livello europeo come Next generation Eu (Ngeu) e Sure.

Dopo la depressione dei primi due trimestri del 2020, il rimbalzo delle economie europee nel 2021 si è accompagnato ad aumenti dei prezzi. Tensioni inflazionistiche più accentuate si sono manifestate negli Stati Uniti, dove la combinazione tra politiche monetarie e fiscali ha avuto un’intonazione ancora più espansiva che nella Ue.

Questa corrispondenza temporale fra policy mix espansivi e ripresa dell’inflazione non è sufficiente per istituire nessi di causalità fra i due fenomeni. L’evidenza empirica mostra che, già prima della pandemia, gli Stati Uniti erano caratterizzati da politiche monetarie e fiscali molto accomodanti e la politica della Bce era espansiva; eppure, specie nell’area euro, i tassi di inflazione erano rimasti molto al di sotto del target delle banche centrali.

Tale evidenza contribuisce a spiegare perché, per molti mesi, le tensioni inflazionistiche nell’area euro e negli Usa siano state interpretate come un esito prevedibile ma temporaneo della pandemia. Al riguardo, i responsabili delle politiche monetarie hanno insistito sulle “strozzature” dal lato dell’offerta, conseguenza sia di temporanee rotture nelle catene produttive internazionali sia dei contingenti sostegni alla domanda per il contrasto degli effetti sociali del Covid-19; e hanno sottolineato che la dinamica dei prezzi nel 2021 era sopravvalutata perché riferita alla precedente fase di depressione.

Questa lettura della temporaneità dell’inflazione si è radicalmente modificata negli ultimi tempi, come è provato dalle decisioni di metà dicembre assunte dalla banca centrale statunitense (Fed), dalla Bce e da altre banche centrali. La Fed ha accelerato la fine degli acquisti straordinari di titoli e ha aperto la strada a ripetuti aumenti nei tassi di interesse di policy nel corso del 2022.

La Bce ha ridimensionato, in misura meno graduale del previsto, i programmi per il sostegno ai debiti pubblici ridisegnati da marzo 2020 e non estenderà quelli di rifinanziamento bancario oltre la metà del 2022. Le scelte della Fed porteranno a restrizioni di politica monetaria nel breve periodo, mentre quelle della Bce si limiteranno a ridimensionarne l’espansione.

Eppure gli aggiustamenti rischiano di avere impatti più rilevanti nell’area euro che negli Usa. La situazione delle due aree, anche rispetto ai rischi di inflazione persistente, è infatti diversa. Proseguire una politica monetaria molto espansiva avrebbe aumentato il surriscaldamento dell’economia statunitense.

L’amministrazione Biden si è, infatti, impegnata a realizzare politiche fiscali per sostenere i redditi più bassi e rinnovare le infrastrutture che dovrebbero stimolare sia la domanda sia l’offerta; inoltre, per varie ragioni, il tasso di disoccupazione è contenuto (intorno al 4%).

Pertanto, se la Fed non avesse corretto la sua politica monetaria accomodante, le aspettative di un’elevata inflazione di medio periodo si sarebbero consolidate e riflesse in rialzi sistematici dei tassi di interesse di mercato; il che avrebbe imposto ritardati, ma molto più accentuati, aggiustamenti della politica monetaria con effetti negativi sull’efficacia della politica fiscale espansiva.

Per non trovarsi in ritardo rispetto alle tendenze macroeconomiche, la Fed ha dato un netto segnale di contrasto all’aumento dei prezzi; se la strategia fiscale di Biden non sarà bloccata dagli esiti delle elezioni di mid-term, tale segnale dovrebbe però avere impatti negativi modesti sui tassi statunitensi di crescita dei prossimi anni.

La politica fiscale espansiva, in corso di realizzazione nella Ue grazie a Ngeu, rischia invece di essere insufficiente a sostenere una robusta crescita economica dell’area in assenza di una politica monetaria altrettanto espansiva. Il pur graduale ridimensionamento degli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce imporrà vincoli crescenti all’intonazione espansiva delle politiche fiscali nazionali specie per i Paesi ad alto debito pubblico.

Per giunta, il successo di Ngeu si fonda su una transizione verde e digitale che, una volta conclusa, accrescerà il potenziale di crescita dei Paesi della Ue ma che, in fase di attuazione, imporrà ristrutturazioni produttive e riorganizzazioni economico-sociali complesse. Si aggiunga che, almeno fino a oggi, le tensioni inflazionistiche europee sono state più deboli e legate a fattori più contingenti rispetto a quelle statunitensi.

Le mosse della Bce sono, quindi, spiegabili solo con i timori di contagio dei tassi d’interesse statunitensi su quelli europei di mercato; e lo scopo è di evitare che la politica monetaria si trovi a inseguire gli andamenti di mercato.

Le precedenti considerazioni non sono buone notizie per l’Italia. Specialmente negli ultimi due anni il nostro Paese ha attuato politiche fiscali nazionali molto espansive, scommettendo sulla ripresa del Pil per compensare la crescita del proprio debito pubblico. Un policy mix europeo, che ridurrà a breve l’assorbimento dei titoli di debito pubblico degli Stati membri da parte della Bce, rende più difficile il successo di questa strategia.

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