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Yes, we yen. Perché una moneta debole può rilanciare il Giappone

La valuta è crollata ai minimi dal 1998. Ma secondo la Banca centrale questa condizione al ribasso può favorire le esportazioni, e un tasso di cambio più debole contribuisce anche a condizioni monetarie più flessibili a livello nazionale

Lo yen è tornato al 1998. Per i giapponesi non è una buona notizia, dato che quello è l’anno della crisi finanziaria asiatica. I numeri registrati lo scorso lunedì, però, sono gli stessi: la valuta del Giappone, come 24 anni fa, è precipitata al livello più basso rispetto al dollaro statunitense a causa della forte inflazione negli Stati Uniti, che ha alimentato un divario di politica monetaria in aumento tra il Giappone e la più grande economia del mondo. Per la Banca centrale giapponese, tuttavia, le cose non vanno poi così male. Soprattutto per l’export.

Lo yen ha pagato a caro prezzo l’aggressivo inasprimento monetario della Federal Reserve per far fronte all’impennata dell’inflazione causata dalla guerra in Ucraina e da altri fattori. Ma a differenza della Fed, la Banca del Giappone ha annunciato che manterrà il suo programma di allentamento monetario di lunga data che si spera possa portare a una crescita stabile.

Le politiche sempre più polari hanno rafforzato il dollaro e lunedì un biglietto verde ha acquistato 135,19 yen. Il calo, rispetto ai tassi di gennaio di circa 115 yen per dollaro, è drammatico. “Lo sfondo in corso per la caduta dello yen è il crescente divario tra i tassi di interesse a lungo termine in Giappone e negli Stati Uniti”, ha spiegato l’economista del Nomura research institute, Takahide Kinouchi. “Poiché i prezzi del petrolio più elevati alimentano l’inflazione negli Stati Uniti, si stanno rafforzando le aspettative sul fatto che l’aggressiva stretta monetaria degli Stati Uniti continuerà, causando un ulteriore aumento dei rendimenti di Washington”.

I prezzi al consumo statunitensi, lo scorso maggio, hanno raggiunto un nuovo massimo da quattro decenni, aumentando dell’8,6% e superando quel che gli economisti pensavano fosse il picco di marzo. In Giappone, invece, l’inflazione ha appena raggiunto l’obiettivo a lungo termine del 2% fissato dalla Banca centrale. E mentre la cifra rappresenta il massimo degli ultimi sette anni, la Banca centrale del Giappone vede le attuali pressioni inflazionistiche come temporanee. E ritiene che la sua politica monetaria sia necessaria per produrre una crescita più duratura. Come dire: yes, we yen.

Il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, ha spiegato che “l’inasprimento monetario non è affatto una misura adeguata per il Giappone, la cui economia si sta ancora riprendendo dalla pandemia”. Kuroda ha aggiunto che uno yen più debole potrebbe rappresentare “un vantaggio per gli esportatori giapponesi, i cui profitti all’estero vengono gonfiati quando vengono rimpatriati”.

Il responsabile della strategia forex asiatica al Capital markets di Singapore, Alvin Tan, concorda. “Lo yen debole aiuta a sostenere direttamente il settore delle esportazioni giapponesi e un tasso di cambio più debole contribuisce anche a condizioni monetarie più flessibili a livello nazionale” ha detto all’Afp. “Sebbene i prezzi all’importazione più elevati influiranno negativamente sui consumatori, e lo yen più debole contribuirà all’inflazione, in particolare data la dipendenza del Giappone dalle importazioni di energia, questo potrebbe anche essere visto come positivo, e potrebbe aiutare ad approfondire le aspettative di inflazione più persistenti in un Paese che ha sofferto la deflazione per così tanti anni”.

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