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Nel nome della finanza. Il senso di Jamie Dimon per la Cina

Dopo oltre quattro anni il numero uno del gigante americano, Jamie Dimon, è tornato nel Dragone per tentare di costruire nuovi ponti con Pechino, laddove la politica ha fallito. Ma la Cina non è più la stessa

Per alcuni è l’ultimo vero leone della finanza americana, nel solco di Warren Buffett. Di sicuro è il banchiere più potente dell’era contemporanea, ascoltato dalla politica e che non si tira indietro neanche a dare valutazioni e consigli sulla gestione della politica monetaria alla Federal Reserve. Jamie Dimon, ceo di JpMorgan, fresco di salvataggio di First Republic Bank (la banca fallita contemporaneamente a Svb, due mesi fa) in queste ore rappresenta anche un ponte tra Stati Uniti e Cina.

Dimon è appena atterrato a Shanghai, per la prima volto dopo quattro anni, vale a dire dall’inizio della pandemia, quando la Cina era qualcosa di molto diverso. E mercoledì salirà sul palco del summit organizzato in loco dalla stessa banca americana. Fatti e circostanze che hanno una loro rilevanza. Tanto per cominciare, non sono tempi facili per la finanza estera in Cina. Due anni e mezzo di lockdown indiscriminati, vaghe ingerenze del partito, una crisi del debito ormai ingestibile, hanno spinto le grandi banche statunitensi e più in generale occidentali a rivedere i propri piani di espansione nel Dragone.

E pensare che nel 2019, data dell’ultima visita di Dimon in Cina, Wall Street e i suoi colossi erano pronti a sfruttare la tanto attesa apertura al mondo del settore finanziario cinese. Ma ora il vento è cambiato. Stati Uniti e Cina sono ai ferri corti, complice la guerra in Ucraina e l’appoggio (più o meno formale che sia) di Pechino a Mosca. E l’economia cinese non tira come dovrebbe. Anzi. Ma Jamie Dimon non vuole mollare, sposando la via del dialogo, soprattutto dopo che 2021, è stato costretto a scusarsi per aver detto a un gruppo di manager americani che la sua banca sarebbe sopravvissuta al partito comunista cinese. Daniel Pinto, direttore operativo di JpMorgan, ha parlato dello scontro tra Usa e Cina in questi termini: “È qualcosa con cui dobbiamo imparare a convivere perché non è risolvibile, ma speriamo che attraverso il dialogo questa tensione diventi costruttiva”.

Negli scorsi mesi si è assistito a una serie di colpi inferti alle società di consulenza occidentali in Cina, cui si è da poco aggiunto il divieto del governo agli operatori tecnologici di acquistare prodotti dell’americana Micron, come rappresaglia per le limitazioni Usa sull’export di prodotti avanzati.

“Credo sia abbastanza ovvio che in questo momento tutti i grandi operatori finanziari stiano adottando un approccio di basso profilo, qualsiasi cosa stiano facendo, con l’unica eccezione di Jamie Dimon”, ha dichiarato Peter Alexander, amministratore delegato della società di consulenza Z-Ben Advisors Ltd, con sede a Shanghai. L’evento organizzato da JpMorgan, comunque, è tutt’altro che una rimpatriata di nostalgici della buona finanza. Più di 2.600 banchieri e clienti si riuniranno per due giorni all’hotel Jing An Shangri-La, nell’hub finanziario di Shanghai.

E che Dimon faccia sul serio lo dimostra anche l’agenda stessa dell’evento, ricca di pesi massimi dell’economia sia statunitense sia cinese, tra cui gli amministratori delegati di Pfizer, Baidu. e Starbucks. E se ci saranno gli ex segretari di Stato americani Henry Kissinger – che ha compiuto 100 anni questo mese – e Condoleezza Rice, protagonisti di una tavola rotonda virtuale, mancheranno del tutto esponenti del governo cinese. La rivale newyorkese di Jp Morgan, Morgan Stanley, invece, terrà un proprio evento incentrato sulla Cina a Hong Kong da martedì a giovedì, con la partecipazione di circa 500 dirigenti di 260 aziende cinesi e più di 1.500 investitori globali.

Tutto questo mentre in terra americana, negli ultimi mesi le banche hanno accettato di concedere prestiti per miliardi di dollari per finanziare le operazioni di leveraged buyout (operazione di finanza che consiste nell’acquisire una società con denaro preso a prestito dalle banche) di Apollo Global, Elliott Management, Blackstone e Veritas Capital. Si tratta di una notizia positiva per i colossi del private equity, che dispongono di centinaia di miliardi di dollari e sono alla ricerca di opzioni di finanziamento interessanti, dato che l’aumento dei tassi di interesse intacca i loro rendimenti.

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