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La Cina saluta le aziende straniere. Troppi occhi addosso non piacciono a nessuno

Tanti controlli e raid sempre più frequenti. La stretta di Pechino sulla sicurezza nazionale e il controspionaggio allontana le società e gli investimenti stranieri. L’ultima è stata l’americana Dentons, che si è scorporata lasciando nel Paese un’entità a parte

In Cina il giro di vite conseguente alla stretta sulle norme di sicurezza e di controspionaggio miete vittime. O meglio aziende. L’ultima a lasciare il Paese è stata la società legale Dentons, la più grande tra quelle occidentali presenti sul territorio cinese, decidendo di scorporarsi in due e trasformando di fatto la Decheng in una realtà indipendente. Quello che un tempo era il braccio cinese dello studio di avvocati, diventerà un ente autonomo con un rapporto “privilegiato”: le due società continueranno dunque a cooperare per il bene dei clienti, si legge in una mail riportata dal Financial Times. Per il resto, “ci aspettiamo che il cambiamento più notevole che vedrete sia un aggiornamento del logo e del marchio della nostra azienda, che tornerà al nostro approccio precedente al 2015 che non include i caratteri cinesi e verrà implementato nelle prossime settimane”, fanno sapere dalla Dentons.

La vicenda è particolarmente significativa ma, allo stesso tempo, non rappresenta una novità in senso assoluto. Da quando Pechino ha scelto la via dura sui dati per questioni (all’apparenza) di sicurezza nazionale, sono state tantissime le aziende che hanno deciso di fare le valigie e andarsene, proprio come Dentons.

Il pacchetto di regole sullo spionaggio, un modo con cui il Partito Comunista Cinese (Pcc) ha accentrato su di sé il controllo delle informazioni sulle società, i cui dati riservati vengono molto spesso supervisionati, è stato ulteriormente aggiornato a maggio scorso includendo la possibilità di controllare “tutti i documenti, i dati, i materiali e gli articoli riguardanti la sicurezza e gli interessi nazionali”. Il che vuol dire che il governo centrale può richiedere quelle informazioni, con ogni mezzo.

Ne sanno già qualcosa i dipendenti del gruppo Mintz, cinque dei quali sono finiti in manette a marzo dopo che le autorità hanno fatto irruzione nei loro uffici. Vicenda simile si è verificata un mese dopo alla società di consulenza Bain, che si è vista anche lei invadere i suoi spazi nell’ufficio di Shanghai.

A unire queste aziende è la provenienza. Nessuna di loro è cinese e, soprattutto, sono tutte americane. Ma potrebbero essere anche europee. La rigidità delle regole e i raid contro di loro complicano la sopravvivenza delle società straniere in Cina, con la diretta conseguenza che decidono di chiudere le loro attività e andarsene, provocando un crollo degli investimenti esteri – sebbene il governo cinese accolga grandi imprenditori stranieri, da Bill Gates a Tim Cook, per mostrare all’interno la ripresa dell’economia.

Le compagnie di spionaggio sono infatti una continua spina nel fianco. Gli uomini che ci lavorano vengono soprannominati “man in black, non solo perché nel corso degli anni la loro figura si è offuscata. Sono sempre esistiti, ma mentre prima di Xi Jinping mantenevano un costante dialogo con le aziende private – specie se straniere – con l’arrivo dell’attuale presidente le cose sono cambiate. In peggio.

Il campo di applicazione in cui il Pcc può intervenire è molto più ampio, coinvolgendo tanti settori dell’industria. La classificazione di “agenti” bolla a tutti gli effetti una società come nemica, impedendo alle altre di collaborarci. L’intento di Pechino è di prevenire lo spionaggio straniero e, per riuscirci, è lei stessa a controllare le aziende straniere entrando in possesso di dati sensibili o segreti commerciali. Con un problema però: troppi occhi addosso le fanno scappare.

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