Skip to main content

Il sogno di Martin Luther King dopo 60 anni è un bivio globale

Chi ama non fa male a nessuno, sia bianco o sia nero, sia etero o no. Nessuno può dirsi migliore di un altro. È questo il senso profondo di quella lezione meravigliosa che oggi compie 60 anni non nel trionfo, come ci siamo illusi che fosse, ma nella tormenta. Martin Luther King non disse che siamo tutti uguali, no, ovviamente. Disse che siamo “tutti creati uguali”. La riflessione di Riccardo Cristiano

Ricordo qualcosa del 28 agosto del 1963 visto che allora ero un bambino e sebbene non avessi ancora dieci anni la folla sconfinata che ascoltò e applaudì Martin Luther King ha riguardato me, la mia formazione, la mia scoperta dell’odio, della discriminazione, del razzismo. Così ne scrivo come scrivessi di me, e della mia generazione. Tra dieci anni non sarà più così, quel discorso pur restando nella storia riguarderà meno direttamente, emotivamente, personalmente chi ne scriverà. Per questo ritengo che ogni sessantesimo anniversario sia importante, in base alle aspettative di vita odierne e alle odierne modalità di partecipazione attiva alla vita sociale, e questo sessantesimo del discorso “I have a dream” di Martin Luther King non va sprecato da chi appartiene alla mia generazione.

Ricordo che ne parlai al mare, dove ero in vacanza con i miei genitori. E cominciò il mio viaggio in America. L’America per molti di noi è stata quel discorso impressionante, quella folla impensabile di neri e di bianchi, come è stata Kennedy, Marilyn Monroe, le grande manifestazioni contro la guerra in Vietnam, il Watergate, quando l’uomo più potente del mondo fu costretto a dimettersi per un’inchiesta di stampa, il “quarto potere”, che non stava con lui o contro di lui, ma con la legalità. L’America per me era questo, e per essere questo doveva essere anche il suo opposto, cioè la discriminazione, la guerra nel Vietnam, l’abuso di potere. Ma l’altra America, quella di Kennedy, di Martin Luther King e della mobilitazione non contro i Viet Cong ma contro gli yankee. La prima America ci entusiasmava perché non aveva paura della sua identità americana, del suo essere davvero, come disse Martin Luther King, patria a questi diritti inalienabili: “Vita, libertà e ricerca della felicità”. Lo afferma, spiegò Martin Luther King, il Proclama dell’emancipazione, firmato un secolo addietro da Abraham Lincoln. Un secolo che aveva abolito la schiavitù, ma non debellato la segregazione, la discriminazione, l’odio razziale.

Qualcuno obietterà che tanto Martin Luther King che John Fitzgerald Kennedy e suo fratello Robert sono stati uccisi in America. È certamente così. La storia americana non è un film americano, dove i buoni sconfiggono sempre i cattivi e vivono tutti felici e contenti. Infatti oggi l’America produce un mare di fondamentalismo, di suprematismo e quindi poca poesia. Ma per tornare ad allora quei film servivano a far dimenticare il peccato d’origine del genocidio dei pellirosse, trasformati in cattivi contro ogni buon senso. La storia americana è stata, per la mia generazione, un esempio e un problema, un modello e un avversario, una scoperta e una rimozione. Non ne potevamo prescindere, nel bene e nel male.

Ma di tutte le sue chitarre, come l’indimenticabile Fender Stratocaster, di tutte le sue rock-star che ci hanno fatto scoprire un altro modo di gioire insieme, di tutti i suoi hot-dog che davano a chiunque la possibilità di sfamarsi con un dollaro senza pretendere che i poveri mangiassero meglio dei ricchi, di tutti i suoi jeans che hanno cambiato il nostro modo di vestire, chi ci ha riguardato più profondamente è stato Martin Luther King. Il suo è stato un altro modo di essere un credente, di essere un pastore, di essere un uomo che sapeva parlare di Dio anche ai non credenti. Quel 28 agosto Martin Luther King ci disse in modo che poteva capirlo anche un bambino come me, che il diritto alla felicità esiste, e per essere tale non può richiedere l’infelicità di un altro. E’ solo così, piano piano, che si arriva a capire cosa voglia dire “vivere insieme”.

Sessanta anni dopo quel discorso, allora profondamente americano, cioè relativo alle colpe e alle sopraffazioni sociali Made in Usa, è un discorso universale, globale. Riguarda in particolare modo la sete di superiorità che seguita a perseguitarci nei confronti dei neri e adesso io dico anche nei confronti degli omosessuali. Contro di loro è stata scatenata una guerra globale che ha nei fondamentalismi proposti da Putin e da Khamenei i veri signori di una nuova “crociata”. L’invasione dell’Ucraina è stata giustificata da Putin con l’urgenza di fermare i Gay Pride e Khamanei oggi porta il suo miliziano preferito, il libanese Nasrallah, a proporre di ucciderli tutti e il Parlamento iracheno a discutere di introdurre per loro la pena capitale. Il mio diritto alla felicità esiste e non è omosessuale, ma non può prevedere l’infelicità altrui. Martin Luther King non propose “Black Power”, piuttosto sognò che i figli di schiavi e i figli di ex schiavisti sedessero “insieme alla tavola della fraternità”. Questo, riferendolo agli omosessuali, non vuol dire confondere i diritti con i desideri, ma il diritto alla felicità possibile è inalienabile. Chi ama non fa male a nessuno, sia bianco o sia nero, sia etero o no. Nessuno può dirsi migliore di un altro. È questo il senso profondo di quella lezione meravigliosa che oggi compie 60 anni non nel trionfo, come ci siamo illusi che fosse, ma nella tormenta. Martin Luther King non disse che siamo tutti uguali, no, ovviamente. Disse che siamo “tutti creati uguali”. Questo il passaggio fondamentale per me: “ Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle”.

Leggendo le gazzette ufficiali si potrebbe pensare che ha vinto, ma non è così. Non ha vinto e lo dimostra la storia, che ogni giorno ci dice che non abbiamo imparato a vivere insieme.

A quel tempo, sui banchi di scuola, ho appreso che un mediorientale di nome Enea avrebbe fondato la nostra civiltà. Ne scrisse il poeta che Dante scelse come sua guida, non uno qualsiasi. Questo Enea giunse qui da clandestino, profugo in mare. Oggi è sparito dal nostro immaginario, come il sangue arabo, quello greco, quello normanno, quello longobardo e tantissimi altri che corrono nelle nostre vene. Tutto questo vive insieme dentro di noi ma noi siamo incapaci di vivere insieme, perché abbiamo paura. Così il mondo ci sembra di buoni e cattivi, con i primi (cioè i buoni, cioè noi ovviamente) che devono sconfiggere, magari sterminare i cattivi. Cosa può esserci di male nell’imporre il bene? È la teoria politica di bin Laden. Così, seguendolo nel suo abisso immorale, siamo arrivati alla guerra mondiale che stiamo vivendo e nella quale l’odio (che i cattivi provano per noi buoni) va estirpato estirpando i cattivi, occupando Kyiv per fermare i Gay Pride dell’Occidente depravato. E allora? Allora bisogna reagire, ma come insegnava Martin Luther King, “la tenebra non può scacciare la tenebra, solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio, solo l’amore può farlo. L’odio moltiplica l’odio, la violenza moltiplica la violenza, la durezza moltiplica la durezza: in una spirale discendente di distruzione”.

Ricordarci dove eravamo solo sessant’anni fa, quando il sogno di Martin Luther King e tante altre conquiste ci sembravano mete irrinunciabili, ci fa capire che, perso lui, anche quell’America ha commesso i suoi eccessi, aiutando reazioni che dal progresso hanno favorito il regresso, e lo stiamo vedendo quanto possa essere regressivo il regresso. Ma la memoria di quel che è stato conquistato solo pochi decenni fa può aiutarci a ritrovarci, siamo ancora in tempo.

(Photo Credits: National Park Service)

Exit mobile version