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Hamas e il rischio emulazione in Italia. L’analisi di Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

Il conflitto in corso potrebbe fungere da catalizzatore anche per iniziative nell’alveo del radicalismo di estrema sinistra. A livello generale, negli ultimi anni c’è da sottolineare un aumento dei casi di antisemitismo in Italia, così come in molti altri Paesi europei, con minacce violente pubblicate dalla rete. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato, e Francesco Conti, studioso della materia (già Unodc Vienna)

GLI ATTORI PRINCIPALI: I GRUPPI TERRORISTICI PRESENTI A GAZA

Il protagonista principale della serie di attacchi senza precedenti contro Israele è Hamas, organizzazione terroristica, inizialmente influenzata dall’ideologia della Fratellanza Musulmana, e in costante collaborazione strategica con l’Iran e le sue forze Pasdaran (il Corpo delle guardie della Rivoluzione Islamica), da cui riceverebbe all’incirca 100 milioni di dollari all’anno, unitamente ad altri fondi provenienti dal Qatar. Il gruppo si mise in evidenza durante la Seconda Intifada (dal 2000 al 2005), quando iniziò a realizzare attentati suicidi indiscriminati contro obiettivi civili in Israele. Nell’estate del 2001 il gruppo colpì una discoteca e un ristorante rispettivamente a Tel Aviv e Gerusalemme, uccidendo, nei due attacchi, ventitré minori. Le Brigate al-Qassam, l’ala militare di Hamas, possono contare, grazie all’assistenza iraniana e a una sua produzione interna, su un vasto arsenale di razzi, dai più rudimentali fino all’Hayyash 250 che ha un raggio superiore ai 220 chilometri (capace cioè di coprire la maggioranza del territorio israeliano). Anche le altre forze amiche dell’Iran nella regione, fra le quali Hezbollah, varie milizie sciite irachene e il movimento Houthi, dispongono tutti di un arsenale (che in alcuni casi comprende anche missili balistici), utilizzato per cercare di contrastare in modo asimmetrico, con il semplice volume di fuoco, la superiorità tecnologica di Israele, Stati Uniti. Inoltre, il gruppo presente a Gaza ha fatto anche uso di diversi modelli di droni, fra cui quelli “suicidi” a basso costo, utilizzati con successo pure dalle forze armate ucraine per controbilanciare la superiorità russa su veicoli pesanti. La minaccia dei veicoli a pilotaggio remoto, più subdola rispetto a quella dei pezzi di artiglieria, non è mai stata sottovalutata dalle forze armate e dall’intelligence israeliana, che ha sempre cercato di contrastare il progresso tecnologico del gruppo terroristico in questo settore. Mohammed al-Zohari, ingegnere aerospaziale tunisino responsabile dello sviluppo dei droni per Hamas, è stato non a caso assassinato a Tunisi nel 2016 in circostanze ancora misteriose: non si è mai escluso che l’unità Kidon del Mossad, responsabile per le operazioni clandestine, abbia svolto un ruolo nell’eliminazione del tunisino.

Altro importante gruppo terroristico presente a Gaza è la Jihad Islamica Palestinese. Questa organizzazione terroristica non dispone né dei fondi né del manpower di Hamas, ma può comunque contare su un vario arsenale di armi (inclusi razzi e droni). Rispetto ad Hamas la Jihad Islamica Palestinese utilizza una struttura più cellulare ed è stata l’organizzazione che ha sdoganato gli attentati suicidi in Israele, compiendo il primo nel 1989, anche se ha poi subito la superiore influenza paramilitare di Hamas nella Striscia di Gaza, dove quest’ultima detiene il potere politico dal 2007. La Jihad Islamica Palestinese ha recentemente istituito campi di addestramento paramilitare per ragazzini palestinesi, in palese violazione delle norme internazionali contro l’utilizzo di bambini-soldato. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si era infatti già espressa contro tali pratiche a Gaza nel 2021. L’indottrinamento di minorenni per l’islamismo violento è tornato alla ribalta dopo l’istituzione, da parte dello Stato Islamico, di vere e proprie scuole di terrorismo per i bambini che si trovavano fra la Siria e l’Iraq durate il suo utopico progetto statuale: i cosiddetti “cuccioli del califfato”. A quasi dieci anni da tali avvenimenti, continuano a esserci casi di minorenni radicalizzati nei campi di detenzione, sempre in Siria e Iraq, a conferma della vulnerabilità dei più giovani nei confronti delle ideologie più brutali, e così purtroppo sfruttati dalle organizzazioni terroristiche.

Negli attuali scontri non sembrano essere invece coinvolti gruppi jihadisti riconducibili a al-Qaeda o allo Stato Islamico. Per quanto riguarda l’organizzazione fondata da bin Laden, essa poteva contare, nello scorso decennio, di un proprio gruppo all’interno della Striscia di Gaza, le Brigate Abdullah Azzam (che prendono il nome del più famoso foreign fighter della jihad contro i sovietici in Afghanistan). Il gruppo aveva partecipato anche agli scontri del 2014, iniziati con un massiccio lancio di razzi, poi seguiti da un’offensiva israeliana su Gaza. In seguito, però, il gruppo divenne progressivamente irrilevante, fino al suo scioglimento ufficiale nel 2019, a causa delle tendenze accentratrici di Hamas a scapito delle altre organizzazioni presenti in loco (che non possono contare del supporto, sia economico che logistico, dell’Iran). Lo Stato Islamico, invece, con la provincia locale presente nel Sinai, ha effettuato qualche sporadico attacco contro Israele nello scorso decennio, oltre ad aver utilizzato i tunnel con Gaza per contrabbandare armi e denaro. Tuttavia, il gruppo è stato molto indebolito dalle offensive militari delle forze armate egiziane durante la presidenza al-Sisi.

La questione Palestina rimane comunque una delle cause più importanti, almeno sotto il profilo propagandistica per i due gruppi terroristici. Infatti, in occasione di importanti eventi di natura politica e militare, al-Qaeda e Stato Islamico hanno sempre fatto sentire la propria voce, spesso con proclami volti ad istigare attacchi contro Israele. Per esempio, in occasione dell’operazione militare dell’IDF Margine di Protezione (Protective Edge) del 2014 e della crisi del Monte del Tempio del 2017, al-Qaeda pubblicò diversi proclami volti a sottolineare il proprio supporto alla causa palestinese, oltre a incitare attentati a danno del nemico sionista. Anche in occasione dei più recenti scontri militari del maggio 2021 al-Qaeda fece sentire la propria voce tramite il suo emiro Ayman al-Zawahiri, che reiterò l’impegno del gruppo jihadista alla liberazione della Palestina. Anche lo Stato Islamico ha seguito un simile copione, utilizzando la causa palestinese a scopi più propagandistici che operativi, nonostante due attacchi mortali in territorio israeliano, a Beersheba e Hadera, entrambi nel marzo 2022, Il secondo avvenne in concomitanza con il summit del Negev fra Israele, Stati Uniti, e diversi Paesi arabi, confermando così che eventi politici possano fungere da catalizzatori per azioni jihadiste. In occasione dell’attuale conflitto, i due gruppi terroristici sono stati invece perlopiù passivi. Il silenzio di al-Qaeda, che si trova ancora senza una guida centrale dal luglio dello scorso anno, non deve quindi sorprendere, soprattutto ora che si trova in una fase di riorganizzazione in Afghanistan. Il gruppo ha lasciato la parola ad al-Qaeda nel Subcontinente Indiano, l’affiliato responsabile proprio del teatro più vicino all’Afghanistan, e strettissimo alleato dei talebani. Invece la macchina propagandistica ufficiale dello Stato Islamico ha lasciato libertà di azione a organi affiliati, che hanno utilizzato la rete per pubblicare comunicati su quanto sta avvenendo. Dai leader attuali dell’ISIS sono state espresse opinioni negative nei confronti di Hamas, movimento a carattere nazionalista e alleato dell’Iran sciita, uno dei nemici principali dell’organizzazione. L’ISIS non è Hamas, come alcuni opinionisti vanno ripetendo in questi giorni: Lo Stato Islamico ha ragioni di propaganda e strategie operative che riflettono la sua missione rivolta al jihadismo transnazionale e che include anche una forte dimensione settaria conflittuale contro gli sciiti, che Hamas non ha. Invece, l’obiettivo unico e unificante degli sforzi di Hamas, l’autoproclamato paladino della causa palestinese, è la distruzione di Israele. Il più recente attacco con il marchio dello Stato Islamico su suolo iraniano, esempio del carattere settario del gruppo, è avvenuto poco più di due mesi fa, con un attentatore solitario che ha assalito a colpi di arma da fuoco dei fedeli presso un mausoleo a Shiraz, uccidendone uno e ferendone almeno sei. Lo stesso carattere nazionalista di Hamas è stato in passato oggetto di critiche anche da parte di al-Qaeda, che ha accusato il gruppo di aver appunto tradito la causa del jihadismo a favore di una lotta con elementi politici, osteggiati dal gruppo.

LA POTENZIALE MINACCIA DEL TERRORISMO INTERNO

Un attentatore solitario è stato protagonista del più recente attacco in Europa, che ha visto nuovamente un professore perire all’arma bianca sotto i colpi di un individuo di origine cecena, replicando così il caso di Samuel Paty, decapitato anch’egli da un ceceno tre anni fa, nell’ottobre 2020. Nel caso precedente si era poi scoperto che l’attentatore era anche in contatto con jihadisti presenti nel teatro siriano. Sebbene le indagini per il più recente attacco siano da poco iniziate e non sia ancora chiaro se vi sia o meno un’eventuale affiliazione ad un gruppo jihadista, l’individuo ora in arresto era comunque noto all’antiterrorismo transalpino. A Milano, nella giornata di sabato 14 ottobre un arabo ha invece preso a schiaffi tre persone italiane in un negozio di alimentari al grido di “Allah Akbar”. È comunque esperienza già nota, purtroppo, che in casi di asserita violazione delle tradizioni della comunità musulmana, come nel caso di eventuali insulti al profeta Muhammad o di scontri in Palestina, singoli attori radicalizzati possano passare all’azione violenta, sentendosi legittimati per difendere la Ummah. Ciò coincide con quanto enunciato dalla più recente relazione al Parlamento della nostra Intelligence, che descrive l’attuale minaccia jihadista come “legata prevalentemente a iniziative estemporanee di attori solitari, privi di legami strutturati con organizzazioni terroristiche, anche se da questi ispirati: la minaccia trae alimento anche dal deterioramento delle situazioni securitarie di aree strategiche nel mondo, specie nel Mediterraneo allargato”. Il caso dell’attuale scontro fra Israele e Hamas sembra esserne l’esempio più lampante

Oltre al mondo jihadista, anche la galassia dell’estremismo di destra, molto spesso antisemita, ha reagito agli scontri in atto con pubblicazioni propagandistiche sul web dal contenuto anti-israeliano. Su un canale Telegram vicino all’organizzazione Atomwaffen Division (un collettivo internazionale di neonazisti con alcuni suoi esponenti europei attualmente in carcere per terrorismo) vi sono stati diversi messaggi che hanno celebrato l’uccisione dei civili in territorio israeliano da parte di Hamas. Il gruppo è stato peraltro attivo anche in Italia nel recente passato, con diversi membri arrestati in diverse città tra il gennaio e il dicembre 2021, coinvolti in attività non solamente di propaganda (anche antisemita, compreso di negazionismo dell’Olocausto), e in pianificazione di attacchi. La causa palestinese, vista nell’ottica di lotta all’imperialismo e al capitalismo, anche militare, è storicamente presente anche per l’estremismo marxista-leninista nel nostro Paese. Il conflitto in corso potrebbe quindi fungere da catalizzatore anche per iniziative nell’alveo del radicalismo di estrema sinistra. Inoltre, a livello generale, negli ultimi anni c’è da sottolineare un aumento dei casi di antisemitismo in Italia, così come in molti altri Paesi europei, con minacce violente pubblicate dalla rete.

EVENTUALI RISCHI PER I MILITARI ITALIANI IN MEDIO ORIENTE

Infine, va ricordata anche la presenza di diversi contingenti delle nostre Forze Armate, impegnate in missioni internazionali nei Paesi limitrofi all’attuale crisi. In Cisgiordania sono presenti unità dell’Arma dei Carabinieri, che hanno messo a disposizione il loro expertise per formare la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese con la missione MIADIT. L’area in oggetto, sebbene in misura minore, sta vedendo comunque scontri fra forze israeliane ed estremisti palestinesi, molto spesso sotto la guida della Tana dei Leoni (Arin al-Usud), giovane organizzazione militante (è stata fondata lo scorso anno) che conta fra le sue fila anche esponenti pro-Hamas e che vede nell’immobilismo politico di Abu Mazen una delle cause principali della debolezza palestinese. In Iraq continuano invece a essere presenti nostri militari dediti all’addestramento antiterrorismo delle forze Peshmerga del Kurdistan. Hadi al-Amiri, capo della brigata Badr (una delle organizzazioni paramilitari sciite più importanti del Paese) ha dichiarato di essere pronto all’eventualità di azioni in aiuto del fronte pro-Hamas dopo l’arrivo nel Mediterraneo della portaerei Gerald Ford, minacciando la possibilità di attacchi contro i soldati americani su suolo iracheno. Infine, in Libano, zona che si potrebbe trasformare in un secondo fronte e che ha già visto azioni militari sia di Hezbollah che dell’IDF, vi sono più di mille militari italiani sotto l’egida della missione di peacekeeping UNIFIL delle Nazioni Unite. Il contingente internazionale presente nel “Paese di cedri” è in stato di massima allerta proprio per lo scambio di attacchi di razzi e artiglieria fra le due parti, che ha portato anche alla morte di un cameraman della Reuters, e che è in grado di pregiudicare l’incolumità delle truppe, anche italiane, impegnate in quotidiane attività di monitoraggio e pattugliamento nel Sud del Libano, spesso in accompagnamento delle forze armate libanesi, che Israele potrebbe ritenere come corresponsabili in caso di attacchi provenienti dal fronte settentrionale.

Nonostante il più basso profilo tenuto dalle nostre Forze Armate rispetto, per esempio, ai militari Stati Uniti impiegato nel teatro mediorientale, un’eventuale escalation su larga scala del conflitto potrebbe comunque mettere a repentaglio le vite dei nostri concittadini in uniforme.

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