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Cop28, tutti i motivi per cui Francesco sentiva di dover essere lì

Papa Francesco non riuscirà ad essere alla Conferenza a Dubai per motivi di salute, ma in realtà è importante chiedersi i motivi del suo desiderio di andare e parlare a tutti i partecipanti della cura della “casa comune”, che non è qualcosa di esterno a noi, ma della quale siamo tutti parte, o “parti”. La riflessione di Riccardo Cristiano

Ci sono delle notizie certamente vere, nessuno le discute. Una di queste riguarda il fatto che Francesco non parteciperà, per motivi di salute, ai lavori di Cop28. Grazie a lui e alla sua trasparenza sui fatti inerenti la sua salute nessuno potrà dire che un “fastidioso raffreddore” gli ha impedito di prendere parte a un evento al quale attribuisce enorme valore. Ma il punto sulla rinuncia al viaggio da parte del vescovo di Roma non riguarda l’entità del problema sanitario che lo trattiene in Vaticano, ma la vera ragione per cui ha tentato in tutti i modi di partecipare a un evento segnato già nella scelta della sua sede, Dubai, capitale di uno dei grandi inquinatori del mondo, e del suo presidente, al contempo presidente del potentissimo ente petrolifero emiratino, già preso di mira dalla Bbc.

Cosa ci avrebbe fatto Francesco tra i lupi? Quale contributo poteva portare ad un evento nel corso del quale la “base” poco potrà far sentire la sua voce stante la scarsa propensione di quella corona per il pluralismo? È un sognatore, un illuso, Francesco? Certamente no.

Per tentare di farsi un’idea non basta ripetersi che la questione climatica per lui è fondamentale. Questo lo sappiamo tutti, avendogli dedicato, fatto che non ha precedenti, un’enciclica come “Laudato si’” e il suo potentissimo aggiornamento, “Laudate Deum”, scritto sotto la forma dell’invettiva biblica, contro i potenti ovviamente. E allora?

All’inizio del suo pontificato, nel 2015, Francesco si recò in visita in Terra Santa e nella delegazione pontificia, quella che lo accompagna nei viaggi, figuravano il rabbino Skorka e l’imam Abboud. Un rabbino e un imam nella delegazione pontificia… Rabbino e imam, due amici personali di Jorge Mario Bergoglio dai tempi di Buenos Aires.

Durante quel viaggio il papa visitò anche Betlemme e raggiungendo la chiesa della Natività si fermò a toccare il muro di separazione che divide israeliani e palestinesi. Molti interpretarono, ma chi seppe dare un’interpretazione più interessante di molte altre fu proprio l’imam Abboud, che, intervistato da padre Antonio Spadaro, fece presente che a suo avviso come Gesù toccava i malati per guarirli, così il papa toccava le ferite per guarirle. Dunque, se capiamo cosa ha voluto dirci l’imam Abboud, possiamo immaginare che andando a Dubai, partecipando a Cop28, Francesco intendeva aiutare a curare la ferita climatico-ambientale che affligge la “casa comune”. Consapevole che i medici chiamati a questo capezzale non sono i migliori per riconoscere che quella piaga li e ci riguarda tutti, insieme.

Questa sfiducia, mia, nei medici chiamati al capezzale del malato-mondo, non implica un giudizio politico, ma oggettivo. Sono leader in guerra l’uno con l’altro in tante parti del mondo, a volte scatenati nel tentativo di distruggere l’altro: e per dare la misura di questa furia vorrei richiamare non i sanguinosi fatti di cui parliamo quotidianamente, ma uno solo di quelli dimenticati: quello sudanese. Chi si massacra con tale ferocia, come accade in Sudan nella scarsa attenzione del resto del mondo da mesi, penserà a “una casa comune”?

Avere sfiducia è facile, appare anche logico. Ma è di contenuto aiuto alla soluzione di problemi oggettivi. Francesco non può permettersi il lusso del pessimismo sfiduciato, e poi per lui nessuno può essere pregiudizialmente e definitivamente perduto. Questa “pia illusione” si basa su tanti convincimenti che dipendono dalla fede, ma non solo da essa: c’è una verità che tutti ci ripetiamo quotidianamente, al riguardo di noi stessi o di persone che conosciamo o non conosciamo: e cioè che il contesto ci può aiutare a dare il meglio di noi o spingerci a dare il peggio di noi. Se si accetta la legittimità di questo criterio è chiaro che Francesco non avrebbe ritenuto la sua partecipazione più importante dell’intesa di massima tra Biden e Xi, ma un fatto che poteva contribuire a mutare il contesto, dare fiducia alla capacità di ognuno di dare non il peggio, ma il meglio di sé.

Aspetto a mio avviso decisivo di questo tentativo sarebbero stati anche i colloqui bilaterali previsti. Qui c’è l’anima, la visione, l’impostazione, la fiducia di Francesco nell’interlocuzione diretta. A questo riguardo è molto importante quanto disse in un’intervista l’allora direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi. In quell’intervista raccontò che dopo un incontro con un Capo di Stato lui andava da Benedetto XVI che gli diceva: “Abbiamo parlato di tre cose. Sulla prima c’è accordo, sulla seconda disaccordo, sulla terza torneremo a parlare, quando ci rivedremo”. Per lui il comunicato ufficiale era già pronto. Ma con Francesco le cose, raccontava ancora Lombardi, non vanno così. Dopo aver incontrato un Capo di Stato lui diceva a Lombardi: “è un tipo interessante, abbiamo parlato di quando andava a scuola, di quanto influì sulla sua formazione la madre. È una persona aperta, mi ha detto tante cose inattese sul suo Paese. Insieme sento che potremo fare tante cose buone”. Cosa avrebbe scritto nel comunicato la Sala Stampa Vaticana?

Vista così la questione per il direttore della Sala Stampa Vaticana era molto delicata e difficile, ma l’indicazione di fondo è un’altra: Bergoglio crede nelle relazioni personali e nelle persone, dunque nessuno è pregiudizialmente perduto. La sua certezza, espressa nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” che il tempo sia superiore allo spazio, comporta che ciò che conta è avviare processi, non restare custodi gelosi della spazio acquisito. Questa visione non può che averlo convinto che un conto è scrivere un documento, magari sull’ambiente; importante certo, forse importantissimo. Ma ancor più importante, o almeno altrettanto importante, è uscire, andare di persone, toccare, curare e così magari guarire, o contribuire a guarire. Nessuno è pregiudizialmente perduto per Francesco.

È questa la ragione di fondo che lo rende indigeribile ai tradizionalisti e ai dottrinalisti. Per loro non c’è cura, non c’è guarigione, non c’è comprensione, non c’è discernimento. C’è solo lo spazio della certezza, e la conseguente condanna di tutto il resto e di chiunque ne sia fuori. Il travaglio di un leader assediato dalle richieste dei suoi “realisti”, dei suoi “conquistadores”, di spazi o contratti, non li riguarda. Francesco invece, a mio avviso, sa che nessuno è pregiudizialmente o definitivamente perduto. E vuole andare. Perché il Vangelo, ripete spesso, ci racconta di Cristo e del suo uscire, andare, toccare, non del suo restarsene a casa sua.

Ecco quelli che a me sembrano i motivi del suo desiderio di uscire, andare, toccare, parlare a tutti i partecipanti della cura della “casa comune”, che non è qualcosa di esterno a noi, ma della quale siamo tutti parte, o “parti”, come dice il termine Cop28, che vuol dire appunto Conferenza delle Parti, non degli inquilini, o dei proprietari. Dunque “Parti”, parti di un cosmo che in greco significa ordine, non certo caos.

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