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Il cambio di passo di Italia e Germania spiegato da Nelli Feroci (Iai)

Non si è ancora riusciti a dare prevedibilità e sistematicità alle relazioni tra Germania e Italia, a differenza di quanto realizzato tra Francia e Germania e tra Italia e Francia. Eppure sono rilevanti le convergenze tra i due Paesi. Uno strumento per regolare questi rapporti potrebbe essere utile sia sul piano bilaterale sia per far avanzare dossier prioritari dell’Ue. L’analisi di Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai)

Le solenni celebrazioni del sessantesimo anniversario della firma del trattato dell’Eliseo e la scadenza dei primi quindici mesi dalla firma del trattato del Quirinale offrono l’occasione per qualche considerazione sul tema dei rapporti tra i tre maggiori protagonisti del progetto europeo. E forse anche sulle ragioni per cui non si è ancora riusciti a dare prevedibilità e sistematicità alle relazioni tra Italia e Germania, a differenza di quanto realizzato tra Francia e Germania e tra Italia e Francia.

Fortemente voluto dal presidente francese De Gaulle e dal cancelliere tedesco Adenauer, e firmato il 22 gennaio del 1963, il trattato dell’Eliseo suggellò la piena riconciliazione tra Francia e Germania e segnò l’inizio di una collaborazione tra i due Paesi destinata a rafforzare le relazioni bilaterali, ma che avrebbe soprattutto profondamente segnato il processo di integrazione europea.

Il trattato, oltre a fissare alcuni obiettivi strategici, definiva un quadro articolato di consultazioni tra i due governi a vari livelli. L’obiettivo era che l’intesa tra i due Paesi fosse il criterio ispiratore delle rispettive decisioni nazionali sui temi di maggior rilievo strategico. Come tutti gli strumenti pattizi, quel trattato non poteva eliminare le differenze che caratterizzavano i rispettivi sistemi politici, interessi economici e retaggi culturali.

E nel corso dei decenni il rapporto franco-tedesco ha alternato momenti in cui ha funzionato come una autentica locomotiva dell’Europa a fasi in cui le divergenze hanno prevalso sulle convergenze, paralizzando il motore franco-tedesco. Il trattato del Quirinale aveva evidentemente precedenti storici meno drammatici e ambizioni più limitate.

Si proponeva sostanzialmente di rafforzare e sistematizzare le relazioni tra Italia e Francia definendo, anche in questo caso, un quadro per consultazioni bilaterali a vari livelli, con l’obiettivo di valorizzare le convergenze, prevenire equivoci emersi nel passato e dare maggior peso a un’azione congiunta dei due governi nel contesto europeo.

Firmato a conclusione di una lunga e controversa gestazione, il trattato del Quirinale deve ancora essere messo alla prova dei fatti, e soprattutto bisogna ancora verificare la sua validità anche in contesti in cui le sensibilità politiche dei due governi non siano necessariamente allineate.

Anche se sono chiare le differenze che caratterizzano i rapporti tra questi tre Paesi e il diverso spessore dei due trattati che regolano i rapporti tra Parigi e Berlino e tra Parigi e Roma, per i rapporti Italia-Germania non è stato ancora definito un quadro di riferimento che ne fissi obiettivi e strumenti. Anche quella dichiarazione solenne, che era stata annunciata in concomitanza con la firma del trattato del Quirinale, sembra in apparenza scomparsa dalle agende dei due governi.

Eppure sulla carta sono rilevanti le convergenze tra i due Paesi, caratterizzati da economie molto complementari, da sistemi politico-istituzionali affini e da un ruolo determinante in Europa. Uno strumento destinato a regolare questi rapporti potrebbe essere molto utile sia sul piano bilaterale sia per far avanzare dossier prioritari dell’Ue. Mi limito a citarne almeno due.

In Europa è tornato di attualità il tema di una politica industriale europea che consenta alle economie del Vecchio continente di recuperare competitività, di sviluppare innovazione e nuove tecnologie e di fronteggiare ad armi pari la concorrenza della Cina, ma anche quella degli Usa (che la scorsa estate hanno adottato un vasto programma di aiuti riservati all’industria americana).

La Commissione europea ha anticipato le grandi linee di una strategia destinata a fornire un sostegno all’industria europea e che dovrebbe articolarsi su due strumenti: un ulteriore allentamento delle regole europee sugli aiuti di Stato e un Fondo comune europeo (magari alimentato da nuovo debito comune).

Il primo è di più rapida attuazione (la Commissione europea ci sta già lavorando), ma è destinato a privilegiare quegli Stati che dispongono di maggiori margini di bilancio (come la Germania) e a penalizzare quegli Stati (come l’Italia) che non si possono permettere politiche di bilancio espansive.

Il secondo costituirebbe una soluzione autenticamente europea, ma richiede tempi più lunghi, la soluzione di notevoli complessità tecniche e il superamento di resistenze politiche. Italia e Germania dovrebbero cercare una sintesi efficace tra queste due opzioni come condizione di una politica industriale europea che miri a rafforzare la competitività dei sistemi produttivi europei senza mettere a rischio l’integrità del mercato interno europeo.

In tema di difesa, Italia e Germania sono entrambe lealmente impegnate nella Nato, ma anche convinte della necessità di realizzare un’Europa della difesa che collabori costruttivamente con l’Alleanza e che contribuisca a rafforzarne il pilastro europeo. Due agende quindi in apparenza convergenti, ma talora contraddette da decisioni nazionali che sembrano andare in direzioni diverse.

La Germania, fino a poco tempo fa un partner riluttante ad assumersi responsabilità nel campo militare, ha annunciato un piano di rafforzamento delle proprie capacità nel campo della difesa destinato a mobilitare cento miliardi di euro. Ha accompagnato l’annuncio di questo piano alla decisione di abbandonare importanti progetti europei nel campo dell’industria della difesa.

L’Italia, sulla carta ugualmente impegnata nel sostenere una dimensione di difesa europea ha, dal canto suo, difficoltà a investire in questo settore e ad aumentare la propria quota di Pil da destinare alla difesa. Molto di più si potrebbe fare sul piano bilaterale per rafforzare la collaborazione tra industrie della difesa, per meglio coordinare le rispettive capacità di intervento in missioni internazionali di crisis management e anche magari per decidere in modo più coordinato quali aiuti di armi e sistemi d’arma fornire all’Ucraina.

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