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Idrocarburi e Sud globale, perché alla Cop28 la questione è esistenziale

Al centro delle frizioni alla Conferenza sul clima c’è il bilanciamento tra decarbonizzazione e sicurezza energetica, materia dove emergono le differenze tra Paesi avanzati ed emergenti. Progressi in termini di finanziamento ma nessuna strada maestra per le soluzioni energetiche: ecco le ragioni del pragmatismo

L’urgenza dello sviluppo sostenibile varia anche a seconda delle latitudini. Nelle aree più ricche del mondo la priorità è decarbonizzare la propria economia per renderla climaticamente neutrale al 2050. Così non è nei luoghi in cui la preoccupazione maggiore è la sicurezza energetica. Dopo decenni al ribasso, nel 2022 è tornato ad aumentare il numero di persone che non hanno proprio accesso alla rete elettrica. E dove la povertà energetica diventa una questione di vita o morte, la sostenibilità ambientale perde di urgenza nell’immediato.

Questo distacco è uno degli elementi nella conversazione tra i Paesi avanzati e il cosiddetto Sud globale (nonché le realtà “di mezzo” come Cina e Arabia Saudita). È anche in sottotraccia alla Conferenza Onu sul clima di Dubai, che infatti è all’insegna di ridurre il divario. Mentre ci si appresta a parlare di finanza verde e condizioni per agevolare lo sviluppo sostenibile nel Sud globale, nei primi due giorni sono arrivati il rifinanziamento del fondo a sostegno della transizione dei Paesi emergenti – 12,7 miliardi di dollari, 2,4 in più rispetto all’anno scorso – e anche un nuovo fondo – 725 milioni di dollari finora – per compensare i Paesi che più risentono degli effetti del cambiamento climatico.

La direzione di marcia, almeno a livello finanziario, è chiara: i Paesi che si sono sviluppati inquinando devono contribuire allo sviluppo sostenibile di quelli emergenti, le modalità per farlo sono oggetto di sviluppo in questi giorni. Ma lo stesso non si può dire delle soluzioni con cui i Paesi porteranno avanti la sfida dello sviluppo sostenibile. E questo disaccordo è emerso con forza nella polemica scoppiata domenica in seguito alle parole di Sultan Al Jaber, presidente della Cop28 e capo della Compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi (Adnoc), secondo cui l’eliminazione totale dei combustibili fossili non è compatibile con gli obiettivi di sviluppo sostenibile a meno che non sia voglia riportare il mondo all’età della pietra.

Le parole di Al Jaber e le reazioni – dallo sdegno dei climatologi alle accuse di negazionismo climatico del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres – hanno catalizzato l’attenzione del mondo. Al punto che lunedì lui stesso ha indetto una conferenza stampa a sorpresa, fiancheggiato dal presidente dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu) Jim Skea, per rispondere alle polemiche. Spiegando di essere stato “travisato” dai media e riaffermando la sua fede nella scienza, Al Jaber ha però reiterato che l’eliminazione “graduale” dei combustibili fossili “è essenziale” ma “deve essere responsabile”, e che la sua cautela è un sintomo della volontà di trasformare “le parole in azione”.

Dietro alle sue frasi c’è il dibattito in corso sulle conclusioni da inserire nel documento finale della Cop28, e la posizione dei Paesi (soprattutto nel Sud globale) che trascinano i piedi perché temono gli effetti dell’abbandono forzato degli idrocarburi – che in molte aree rimangono la maniera più veloce ed economica di rispondere alla domanda energetica in crescita, anche al netto dell’attrattività del solare. In parallelo, i gruppi ambientalisti stanno criticando il nuovo Patto tra le major energetiche, uno dei risultati più in vista di questa Cop, per l’abbattimento delle emissioni delle loro operazioni – che secondo i critici dovrebbero arrivare a coprire anche le cosiddette scope 3, le emissioni indirette. Vale a dire: l’utilizzo finale degli idrocarburi che estraggono, posizione che riconduce alla volontà di eliminarne completamente l’utilizzo.

Tuttavia, nemmeno le nazioni avanzate hanno una messo sul tavolo una soluzione definitiva per l’alternativa sostenibile agli idrocarburi, che tuttora alimentano l’80% del sistema energetico globale. Mentre 116 Paesi si sono impegnati a triplicare la capacità di generazione rinnovabile (non Cina e India, perché l’impegno era legato alla riduzione delluso dei combustibili fossili), solo una ventina hanno firmato per fare lo stesso con il nucleare, nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia lo abbia indicato come “essenziale” per raggiungere gli obiettivi al 2050. E mentre in Ue continua il dibattito su quanto investire nel gas naturale, il meno climalterante degli idrocarburi, si continua a bruciare carbone – mentre si dispensano soldi e indicazioni per la transizione verde del Sud globale.

Questo quadro ostacola la conduzione di un dialogo efficace tra Nord e Sud globale. Ma è anche l’ambito del dibattito che potrebbe portare a una vera svolta, a patto che si tenga conto della reticenza dei Paesi nel suonare il requiem per gli idrocarburi e si cammini sul sentiero dell’engagement pragmatico. Alla Cop26 di Glasgow, nel 2021, i partecipanti non sono riusciti nemmeno ad accordarsi sull’eliminazione totale del carbone, preferendo un più neutro phase-down. Non è ancora chiaro se il documento finale della Conferenza di Dubai conterrà misure più ambiziose in materia di carbone: non sembra ancora esserci consenso a riguardo. Ma gli eventuali risultati potranno arrivare (per dirla con le parole del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni) solo nel solco di una “transizione ecologica, non ideologica”. E per metà del globo, con cui serve collaborare, rimane prematuro parlare della finedel fossile tout court.

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