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Quando la politica fa premio sull’economia. Il nuovo Patto di stabilità analizzato da Polillo

L’Italia, con Francia e Spagna, è riuscita a spuntare una clausola transitoria che dimezzerà le probabilità di un rientro del debito troppo traumatico. Grazie a questo ulteriore passaggio, Giancarlo Giorgetti ha espresso la sua sofferta adesione. Sarebbe stato difficile resistere ancora, visto che dal primo gennaio sarebbero tornate in vita le vecchie regole del Patto

Se tutto andrà bene, la contropartita del nuovo Patto di stabilità sarà stato il voto di 225 mila elettori tedeschi a favore di Christian Wolfgang Lindner: l’attuale ministro delle Finanze, nonché leader dell’Fdp. Il Partito liberale democratico. Partito che forse resterà sulla scena europea, ma in danno ai 445 milioni di abitanti dell’Eurozona, che forse potevano sperare in qualcosa di meglio. Paradossi di una realtà politica, come quella europea, in cui i principali dirigenti appartengono al mondo di Lilliput. Pronti a sacrificare ogni cosa, pur di difendere la propria posizione personale. Quando Vladimir Putin irride alle debolezze del Vecchio Continente, purtroppo, qualche ragione è dalla sua parte.

Gli ultimi sondaggi dello scorso 19 dicembre avevano attribuito all’Fdp solo il 5 per cento dei voti, alle prossime elezioni europee. Ad un passo quindi dall’esclusione, a causa dello sbarramento previsto dalla legge elettorale. Nel disperato tentativo di scongiurare un esito disastroso, che avrebbe avuto immediate conseguenze sulla tenuta del governo federale, il leader del Partito aveva deciso di giocare duro. Inforcata l’arma del rigore, aveva duramente contestato le proposte della Commissione europea e preteso di irrigidire il nuovo Patto di stabilità per far presa sui settori più prevenuti del suo elettorato, nei confronti dei “meridionali”. Con l’obiettivo evidente di contrastare quella che sembra essere l’irresistibile ascesa di Adf – Alternative für Deutschland.

Si vedrà dopo il 9 giugno (data delle elezioni in Germania), nel frattempo tuttavia i buoi sono fuggiti dalle stalle. Le colpe non sono tanto di Lindner, che ha solo fatto il suo gioco, per quanto miope. Le responsabilità sono soprattutto di Olaf Scholz che ha consentito al suo ministro margini di manovra eccessivi. In subordine, lo sono della Francia, che ha negoziato guardando solo ai suoi interessi di brevissimo periodo: allentare le briglie del Patto fino alle sue prossime elezioni del 2027, per avere più margini finanziari nella manovra di bilancio. Ma lo sono, in qualche modo, anche della sinistra italiana. Che, oggi, sbraita.

Giorgia Meloni è stata più volte accusata dal Pd di coltivare amicizie pericolose, come quelle con Viktor Orbán: il presidente ungherese nemico dell’Unione. Sarà pure così. Ma almeno quei rapporti qualche risultato positivo per la governance europea l’hanno ottenuto, nello stemperare posizioni pregiudiziali che avrebbero recato danni maggiori. Cos’ha fatto Elly Schlein per convincere Olaf Scholz ad intervenire: non tanto in difesa degli interessi italiani, quanto per sostenere i lavori di quella Commissione europea, in cui un autorevole esponente del suo partito, Paolo Gentiloni, ha un ruolo chiave?

Se si è di fronte “ad un cattivo compromesso per l’Italia”, come si è affrettata a dichiarare, dovrebbe, allora, guardarsi allo specchio e chiedersi qual è stato il peso reale del suo partito nel raggruppamento europeo (l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici), in cui milita lo stesso Scholz. In questa tormentata vicenda chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Considerato, tuttavia, il difficile contesto, che ha fatto da cornice al negoziato, i risultati definitivi non sono certo il massimo. Ma rappresentano, tuttavia, un compromesso accettabile.

Anche se sarebbe stato preferibile seguire le indicazioni date, a suo tempo, da Mario Draghi. Quando il Patto entrerà a regime, vale a dire nel 2027, basterà avere un tasso di crescita del Pil nominale intorno al 2 per cento per ottenere una riduzione di un punto del rapporto debito/Pil. Non certo una missione impossibile, ma al contrario un vincolo che consente manovre a favore della crescita economica. Sempre che queste ultime siano effettive e non elargizioni dello Stato (bonus per edilizia o reddito di cittadinanza) in grado di attivare moltiplicatori fiscali di gran lunga inferiori all’unità.

Se questo è lo scenario, dov’è la critica? Soprattutto nel determinismo degli indicatori aritmetici che sono ciechi di fronte ai progressi effettivi dell’economia di ciascun Paese. Nel caso italiano, ad esempio, non sono stati in grado di cogliere il salto di qualità intervenuto rispetto al 2013. Allora il suo debito estero era pari al 23,4 per cento del Pil. Nel 2021 quel debito era stato non solo interamente saldato, ma il credito concesso all’estero, con un ribaltamento di 360 gradi, era salito all’8,1 per cento del Pil. Per cui, ancora oggi, l’Italia, insieme alla Germania, l’Olanda ed il Belgio, nonostante il suo alto debito pubblico, contribuisce al finanziamento degli altri Paesi, che presentano squilibri nella dinamica dei conti con l’estero.

Altro elemento che non convince è il riferimento al cosiddetto “aggiustamento annuo strutturale”. Vale a dire quella progressiva riduzione del deficit di bilancio (0,4 o 0,25 per cento all’anno, a seconda dei casi) per scendere fino all’1,5 per cento del Pil. Una sorta d’asticella che dovrebbe poter variare in funzione della congiuntura. Un aggiustamento maggiore nel caso di vacche grasse e minore nel caso contrario, per evitare ogni effetto pro-ciclico. L’esperienza passata insegna, in fatti, che quado si mettono paletti fissi si è portati a spendere di più nella fase espansiva, senza aver poi la forza di tornare indietro nei momenti di recessione.

Ma al di là di questo, è proprio il riferimento a quel dato statistico che desta perplessità. Il deficit strutturale è qualcosa che non esiste in natura. Ma frutto di elaborazioni statistiche tutt’altro che univoche. Le diverse metodiche, ad esempio, differiscono nel caso della Commissione europea o del Fmi. Averle fatte rivivere, dopo i tanti contrasti del passato, non è stata una buona idea. La stessa Commissione europea, nel testo originariamente proposto, si era vantata del processo di semplificazione proposto. Che oggi subisce un piccolo contraccolpo.

Pazienza. L’Italia, con la Francia e la Spagna sono riuscite a spuntare una clausola transitoria per il periodo 2025 al 2027. In questo triennio, nel calcolo del taglio di deficit si terrà conto degli interessi sul debito e degli investimenti in più fatti in quegli anni per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa: queste somme saranno defalcate dallo 0,5%. Il che significa almeno dimezzare lo sforzo necessario per seguire il percorso più virtuoso, che scatterà solo negli esercizi futuri. Grazie a questo ulteriore passaggio, Giancarlo Giorgetti ha espresso la sua sofferta adesione. Sarebbe stato difficile resistere ancora, visto che, altrimenti, dal 1 gennaio sarebbero tornate in vita le vecchie regole del Patto. Un tanto peggio, tanto meglio, che non è mai regola di buona condotta.

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