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Cosa raccontano le dimissioni di Claudine Gay da Harvard. La riflessione di Andreatta

La presidente di Harvard Corporation si è dimessa dopo il dibattito in America sull’antisemitismo e dopo una campagna soprattutto mediatica contro le sue esperienze accademiche. In un articolo sul Nyt, Gay si è difesa con vigore esprimendo le sue ragioni e delineando la cornice politica in cui – a suo dire – è da iscriversi, più in ampio, l’intera vicenda

Nell’intervento sul New York Times in cui fornisce la sua versione dei fatti che hanno portato alle dimissioni dalla carica di Presidente di Harvard Corporation, Claudine Gay ha difeso con vigore le sue ragioni e delineato la cornice politica in cui – a suo dire – è da iscriversi l’intera vicenda.

Il permanere nella carica era divenuto oggettivamente insostenibile già dalla drammatica testimonianza di un mese fa di fronte all’Education and Workforce Committee della Camera dei Rappresentanti in cui, assieme alle sue colleghe del MIT e della University of Pennsylvania, aveva sostenuto che l’invocare il genocidio degli Ebrei può configurarsi come infrazione del Codice di Disciplina dell’Università ma solo previa valutazione del ‘contesto’.

A ciò aveva fatto seguito, nel corso del mese successivo, una campagna soprattutto mediatica volta a evidenziare come il suo curriculum accademico, già quantitativamente scarno, violasse in più circostanze le norme in materia di plagio, da lei derubricate a casi di duplication.

Concentrare l’attenzione sulla vicenda personale di Claudine Gay, però, rischia di far distogliere lo sguardo dal quadro generale entro cui i fatti in questione devono interpretarsi e dalla complessità delle implicazioni che ne derivano.

Proprio per la scelta da parte di Harvard Corporation – nota anche come President and Fellows of Harvard College – di difendere l’operato della Presidente anche quando le circostanze ne consigliavano forse la censura immediata e l’invito alle dimissioni senza indugio, l’organo collegiale da lei presieduto è a sua volta divenuto oggetto di richiesta di dimissioni per i motivi suesposti e per l’inadeguatezza –sostengono i critici – a guidare il processo di nomina del successore.

Il sistema di governance della Corporation – basato, diversamente dal Board of Overseers, interamente sulla nomina per cooptazione dei componenti – ha peraltro manifestato tutta la sua rigidità lasciando che le tensioni trovassero sfogo nelle piattaforme mediatiche e non in una camera di compensazione istituzionale che coinvolgesse soggetti esterni formalmente titolari del potere di nomina e di revoca.

A finire nel mirino in questa fase è Penny Pritzker, senior fellow di Harvard Corporation, già a capo della commissione ristretta che ha espresso la candidatura di Claudine Gay alla Presidenza nel 2023, ma soprattutto Segretaria al Commercio durante il secondo mandato del presidente Barack Obama.

Ed è proprio il predecessore di Donald Trump alla Casa Bianca, a detta di molti prodigatosi dietro le quinte ma con energia in difesa dello status quo ai vertici del più noto ateneo della Ivy League, che potrebbe risultare come il principale sconfitto nella tenzone che ha visto distinguersi tra i contestatori Bill Ackman, alumnus di Harvard e fondatore del fondo attivista Pershing Square Capital Management.

In altre parole, il rischio per Obama – già oggetto di critiche per il suo ‘Nessuno ha le mani pulite’ pronunciato a proposito del conflitto in corso tra Hamas e Israele – è quello di venire percepito come meno moderato nelle sue posizioni progressiste e di subire, invece che governare, la crescente polarizzazione e radicalizzazione del dibattito politico americano, di cui i fatti di Harvard e degli altri atenei rappresentano una delle tante manifestazioni.

Ciò che più importa, peraltro, è che verrebbe notevolmente fiaccato anche il supporto, decisivo nel 2020, al già debole tentativo di Joe Biden di guadagnarsi la riconferma alla Casa Bianca a novembre di quest’anno.

C’è di più. Appartenente alla nota famiglia di imprenditori e filantropi insediatasi negli Stati Uniti su iniziativa del capostipite Jacob, ebreo ucraino scampato ai pogrom russi dei primi del Novecento, e i cui discendenti hanno dato vita al gruppo alberghiero Hyatt e alla conglomerata Marmon Group, Penny Pritzker ricopre da qualche mese anche la carica di Rappresentante Speciale per la Ripresa Economica dell’Ucraina per conto dell’Amministrazione Biden, coordinando in questa veste gli imponenti sforzi di ricostruzione, a capitale sia pubblico che privato, del Paese.

Il fatto di aver dovuto soccombere nella disfida di Cambridge, Massachusetts, potrebbe quindi doversi leggere anche in connessione con la crescente riluttanza sia della società che della politica e degli apparati americani nel sostenere lo sforzo bellico di Kiev in questa fase e che potrebbe culminare in un’inversione di rotta qualora alla Casa Bianca dovesse fare ritorno Donald Trump.

Figura divisiva, paladina della cultura woke ed epitome secondo molti del graduale assorbimento del concetto di inclusione nella dicotomia oppressore/oppresso e delle conseguenti lacerazioni nel tessuto sociale americano, Claudine Gay – esempio di quello che alle nostre latitudini un tempo si sarebbe definito ‘intellettuale organico’ – può quindi non aver torto, sebbene non per i motivi da lei indicati, nel suggerire che quanto accaduto ad Harvard “è più grande della sua persona”.

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