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L’Ocse e la realtà italiana. Perché le raccomandazioni servono secondo Zecchini

Malgrado alcune debolezze d’analisi, l’insieme delle raccomandazioni pervenute all’Italia è un utile stimolo e contributo alla riflessione sui nodi dello sviluppo e sull’ampiezza del compito, che non investe soltanto il campo economico, ma diversi ambiti del sistema Paese. Il commento di Salvatore Zecchini

Al pari della Commissione europea e del Fmi, l’Ocse ha fatto sentire di recente la sua voce nel valutare i problemi dell’economia italiana e nell’emettere raccomandazioni sulle politiche da seguire. La sua analisi, presentata in uno dei periodici rapporti, aggiunge poco di nuovo alla conoscenza delle debolezze strutturali e dei nodi alla crescita, ma si distingue in qualche misura dalle prime due istituzioni per la scelta dei temi approfonditi e delle indicazioni date ai governanti.

La prima metà è una rassegna dei progressi negli ultimi anni nell’affrontare le debolezze e gli squilibri della crescita, a cui fa seguito una lunga serie di segnalazioni sul da farsi per superare i diversi problemi. La seconda parte è focalizzata sulla transizione energetica con un’approfondita analisi della distanza da coprire per raggiungere nel 2030 i traguardi europei di contenimento delle emissioni di gas serra e con la specificazione degli interventi necessari per rispettare gli impegni presi.

Guardando l’insieme delle misure si ha l’impressione che non si sia considerato né il duplice esame di compatibilità e fattibilità delle stesse, né il contesto istituzionale entro cui vanno operate, né i tempi richiesti per l’attuazione. Singolarmente prese le raccomandazioni hanno una propria ragion d’essere, ma rivolte al decisore politico si presentano come soluzioni ottimali di difficile attuazione perché avulse dalla realtà del Paese.

Sul piano della conduzione macroeconomica, al centro dell’analisi sono il riequilibrio della finanza pubblica e le riforme strutturali per ottenere maggior crescita. Sul primo punto, non si può che iniziare dal problema dell’eccesso relativo di debito pubblico, perché rappresenta il più grave vincolo alle possibilità di sostenere lo sviluppo economico e di limitare l’impatto delle fasi avverse del ciclo congiunturale. La nostra classe politica farebbe bene a tener a mente soprattutto un grafico del Rapporto che mostra come, stando alle misure attualmente in essere, l’incidenza del debito pubblico sul Pil tenda a salire dal 140% al 150% nel 2030, e continuare verso il 160% prima di giungere al 2035 e ancor più in alto nel 2040.

Applicando, invece, le nuove regole del Patto di stabilità e un nucleo di riforme di struttura, scenderebbe soltanto nel 2035 al livello pre-pandemia del 130%, che è già al limite della sostenibilità. Ne discende che è ineluttabile il passaggio dall’attuale politica di bilancio “neutrale” a una “prudente”, che nel linguaggio dell’Ocse vuol dire una correzione sostenuta dei disavanzi negli anni prossimi e una ristrutturazione della spesa pubblica insieme alla sua riduzione.

Su questo fronte la maggiore difficoltà sta nell’avere quasi la metà della spesa (49%) impegnata nel pagamento delle pensioni, dell’assistenza sociale e degli interessi sul debito e un altro 14% nella sanità. Se non si può modificare il costo del debito, giustamente l’Ocse raccomanda una rigorosa revisione di tutta la spesa per ridurre le poste meno prioritarie e ottenere maggiore efficienza e produttività nei servizi pubblici, per incrementarli senza maggiorazioni di costo. I tagli dovrebbero andare oltre quanto programmato dal governo ed incidere sulle spese fiscali e sui vari incentivi.

Ma gli spazi disponibili sono ristretti perché queste misure avrebbero elevati costi politici, provocherebbero forti resistenze e comporterebbero ricadute negative per l’inflazione e la crescita. Ridurre i crediti d’imposta, gli incentivi agli investimenti, le agevolazioni alle pmi, i sussidi ai carburanti, i benefici fiscali a determinate categorie sono stati tentati in passato con effetti più negativi che positivi, anche perché sono stati compensati da nuove elargizioni. Ridurre gli aiuti alle imprese per investimenti, la R&I, l’export, l’imprenditorialità e per compensare diseconomie esterne non mancherebbe di deprimere l’attività economica, l’occupazione e la competitività.

Alcune delle misure raccomandate consistono nel contrastare il pensionamento anticipato, ridurre le pensioni di reversibilità e decurtare le pensioni elevate. Quest’ultima azione assumerebbe la forma di una tassazione fortemente progressiva sull’eccedenza del trattamento pensionistico rispetto ai contributi versati con l’esclusione delle pensioni più basse. Questo meccanismo secondo l’OCSE, eviterebbe una pronuncia avversa della Corte Costituzionale. Ma a parte che è una forma di tassazione discriminatoria che colpirebbe anche i ceti a medio reddito, si scontrerebbe con problemi di fattibilità. L’Inps, invero, ha detto in passato di non disporre di dati sufficienti per questi calcoli riferiti al passato. Resterebbe nondimeno da valutare la reale consistenza del gettito di una simile misura e l’equità di una ridistribuzione di redditi acquisiti.

La correzione di bilancio dovrebbe altresì interessare il lato della tassazione. Considerato il poco spazio per aumentarla, visto che è già tra le più elevate tra i paesi membri, l’Ocse raccomanda di alleggerirne il peso sui redditi da lavoro per spostarlo sulle proprietà patrimoniali, sulle eredità e sulle imposte indirette che toccano i consumi. In particolare, raccomanda l’adeguamento dei valori catastali delle abitazioni ai fini della tassazione e il ripristino dell’imposta sulla prima casa. Si pronuncia anche contro l’adozione della flat tax sui redditi delle persone e su alcune fonti di reddito, e contro i benefici fiscali che disincentivano la partecipazione delle donne al lavoro in alcune categorie.

Tralasciando la percorribilità politica di un simile approccio, l’effetto sarebbe di accentuare il già intenso processo di ridistribuzione dei redditi a favore dei ceti meno abbienti, già beneficiari di una lunga serie di provvidenze in moneta e in natura, penalizzando anche i redditi medi. Ripercussioni negative si avrebbero sulle pmi nel passaggio generazionale delle imprese e sulla formazione di capitale per ingrandire il sistema produttivo.

Non si può, tuttavia, disconoscere che una più rigorosa lotta all’evasione fiscale (ad es., raccomandati un maggior uso della digitalizzazione e un abbassamento del limite sul contante nei pagamenti), accompagnata da limitati e molto graduali aggiustamenti del sistema fiscale nei campi accennati dovrebbe dare un contributo al riequilibrio del bilancio pubblico. Ma lo sforzo maggiore andrebbe compiuto nel ridimensionare la spesa pubblica, nel rendere più efficienti i servizi pubblici a parità di spesa e nel limitare gli interventi assistenziali a quanti risultano effettivamente i più bisognosi, evitando che operino come un disincentivo al lavoro o un riparo alla tassazione.

La platea della povertà non è così estesa come stima l’Ocse, in quanto i suoi calcoli si basano su parametri discutibili e su indici di disuguaglianza di reddito, mentre nella disparità di ricchezza gli indici italiani sono inferiori a quelli di Germania e alla media dell’eurozona.
Nell’affermare che la poca crescita è il prodotto della stagnazione della produttività, della poca innovazione e scarsa partecipazione al lavoro, particolarmente tra le donne e i giovani Neet, l’Ocse richiama l’attenzione sulla necessità di riforme a tutto campo. Non tutte le azioni raccomandate sono prive di controindicazioni a causa degli effetti negativi accanto ai positivi.

Allungare il congedo di paternità si presterebbe ad abusi senza necessariamente favorire la partecipazione al lavoro delle donne, ma con aggravi di spesa pubblica. Analogamente, un’uscita graduale dagli aiuti all’occupazione (Adi e Sfl) che hanno rimpiazzato il reddito di cittadinanza, può rendere conveniente accettare un lavoro per cumulare retribuzione e aiuto, sempre che avvenga per un periodo limitato, onde prevenire abusi.

Altre raccomandazioni toccano riforme dovute da lungo tempo e d’indiscutibile beneficio per stimolare la crescita. Prima fra tutte l’incremento della concorrenza nel settore delle prestazioni professionali, in specie riducendo il campo d’applicazione dell’equo compenso. Meglio sarebbe ridurre o eliminare i minimi legali delle tariffe professionali, per ottenere più competizione ed efficienza nei servizi. L’OCSE raccomanda, inoltre, di proseguire nel riformare la giustizia, in particolare, collegando la retribuzione e la progressione di carriera dei magistrati alla loro performance, che deve essere valutata in maniera approfondita.

Si sollecita il governo a intervenire anche nella disciplina del lavoro per limitare l’incertezza generata tra le imprese dalla sentenza della Corte Costituzionale che rimanda al giudice la determinazione del compenso per il lavoratore licenziato, cassando una precedente riforma. Altri interventi caldeggiati consistono nel ricorrere più frequentemente alle gare per le commesse pubbliche e far ruotare anche negli enti locali i funzionari pubblici nelle funzioni che si interfacciano con le imprese con l’obiettivo di una più efficace prevenzione della corruzione.
Con queste indicazioni si toccano interessi ben radicati e si evidenzia quanto l’attuale assetto istituzionale a vari livelli, incluso il mondo della giustizia, non conduca a promuovere lo sviluppo dell’economia ma ne sia d’intralcio.

Ogni intervento sulla classe dei giudici solleva la loro resistenza in nome della loro indipendenza. Alcune pronunce della Corte Costituzionale possono complicare le riforme perché in contrasto con una obsoleta cultura giuridica e sociale che viene difesa benché si sia dimostrata deleteria per il progresso. Ogni riforma che leda le rendite delle corporazioni che presidiano comparti del settore dei servizi innescano reazioni virulente e dannose. Pur essendo interventi opportuni e vantaggiosi per rilanciare il potenziale di crescita nel medio periodo, hanno poche probabilità di essere introdotti e di ricevere il necessario appoggio da larghi segmenti della società.

Appare, invece, più probabile che si dia seguito alle raccomandazioni di agevolare lo spostamento dei lavoratori verso i settori più produttivi e in espansione, di sottoporre a verifica le competenze dei soggetti che offrono corsi di formazione al lavoro e di condizionare la loro retribuzione al successo del lavoratore nel trovare stabile occupazione. Nel campo della transizione energetica le raccomandazioni dell’OCSE sembrano non tener in sufficiente conto i costi, le ricadute sfavorevoli per il sistema produttivo ed i vincoli derivanti dalle autonomie di governo su base regionale e locale.

Si sollecita il governo a un più rapido passaggio al trasporto elettrico su gomma, a eliminare ogni sussidio ai combustibili fossili, alle auto che li impiegano e alle caldaie a gas, e si chiede di variare l’onere fiscale sulle auto in rapporto alle loro emissioni inquinanti e di sostenere il ricorso alle energie rinnovabili. Naturalmente, il potenziamento del trasporto elettrico deve accompagnarsi a investimenti nelle infrastrutture, quali le stazioni di ricarica. Si chiede altresì allo Stato di farsi carico del finanziamento delle opere per il risparmio energetico degli immobili appartenenti ai meno abbienti.

In queste raccomandazioni si rilevano non poche incongruenze e un’incompleta percezione delle implicazioni. Incongruenze, perché un simile piano riverserebbe grandi oneri sulla spesa pubblica in contraddizione con la raccomandazione di ridurla per sanare gli squilibri sul debito. Incompletezza dell’analisi a monte della raccomandazione, in quanto penalizzerebbe nel breve periodo l’industria italiana che è specializzata nei motori endotermici e nella loro componentistica, mentre ha difficoltà a competere nel comparto dei mezzi elettrici.

Di riflesso, si favorirebbe l’avanzata nel mercato italiano della concorrenza cinese già forte e di quella di altri paesi. Appare anche criticabile che l’Ocse non mostri una neutralità tecnologica, ma si schieri su un versante, l’elettrico rinnovabile, ignorando il ruolo dell’idrogeno e del nucleare. Non va neanche dimenticato che il passaggio rapido all’elettrico comporta grandi investimenti nelle infrastrutture, che possono realizzarsi solo nel lungo periodo.

Malgrado alcune debolezze d’analisi nella realtà, l’insieme delle raccomandazioni è un utile stimolo e contributo alla riflessione sui nodi dello sviluppo e sull’ampiezza del compito, che non investe soltanto il campo economico ma diversi ambiti del sistema Paese. È pure molto importante il richiamo all’urgenza di riportare il debito pubblico su livelli meno inquietanti, nella consapevolezza che non è sufficiente puntare genericamente sulla crescita se non si interviene sulla spesa pubblica per limitarla agli impieghi più produttivi.

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