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Privatizzare, ma non soltanto per far cassa. Il commento del prof. Zecchini

Il governo punta a proventi per almeno l’1% del prodotto interno lordo (ossia 21-22 miliardi di euro) per abbassare il rapporto debito/Pil. Attenzione, però: non saranno le privatizzazioni e il riordino delle partecipazioni a sanare gli squilibri del debito e della crescita. L’analisi di Salvatore Zecchini

Da qualche tempo si rincorrono le voci di una probabile cessione sul mercato del 4% del capitale azionario dell’Eni, società strategica nel settore dell’energia, di cui lo Stato detiene la minoranza di controllo col 32,4%. L’operazione si inquadra nel programma di dismissioni di partecipazioni societarie dichiarato dal governo nell’impostare la politica di bilancio per il triennio 2024-2026 (Nadef dell’ottobre 2023). L’obiettivo triennale è ottenere proventi per almeno l’1% del prodotto interno lordo, ossia come minimo tra 21 e 22 miliardi, che sarebbero destinati programmaticamente a facilitare l’abbassamento del rapporto debito pubblico/ prodotto interno lordo, ma anche ad acquisire partecipazioni in imprese ritenute strategiche, quali le reti di telecomunicazione.

Non si tratta di vere privatizzazioni perché lo Stato manterrebbe la quota di controllo delle società, a eccezione dei casi in cui la cederebbe per dare esecuzione agli impegni presi con Bruxelles come contropartita dell’autorizzazione a concedere aiuti a grandi società in crisi, per esempio, per il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. Si è, quindi, di fronte a una duplice finalità, ottenere liquidità da impiegare per scopi predeterminati e razionalizzare il portafoglio delle società partecipate dallo Stato mediante acquisti e vendite di quote in risposta a esigenze strategiche, come affermato dal ministro dell’Economia.

Un vera sfida nel confrontare due esigenze non sempre compatibili tra loro e indefinite nei contorni finanziari e nelle priorità. Attualmente, tra le due sembra prevalere la prima a causa del vincolo più condizionante, che è ridurre il peso relativo del debito pubblico con operazioni che non intacchino il ruolo guida dello Stato nelle imprese considerate strategiche. Il sollievo ottenibile con queste operazioni è, invero, limitato e può rivelarsi effimero. Limitato, in quanto le possibilità di cessioni a prezzi convenienti non sono ampie, benché le partecipate nel portafoglio del Mef siano numerose. L’elenco annovera sei grandi società quotate e altrettante che emettono titoli sui mercati finanziari, a cui si aggiungono 22 società che perseguono finalità meramente pubbliche e quindi difficilmente privatizzabili.

Dalla cessione del 4% dell’Eni, dopo il suo completamento del riacquisto di una quota delle azioni proprie, sembra che si possano ricavare circa 2 miliardi, un importo esiguo in rapporto al prodotto interno lordo, essendo meno dello 0,1% del prodotto interno lordo programmatico. Altre frazioni di un punto percentuale sarebbero ricavabili dalla cessione di quote del Monte dei Paschi di Siena e di altre marginali. Per ottenere risorse consistenti occorrerebbe, invece, che già quest’anno si preparassero e attuassero dismissioni importanti, pur mantenendo il controllo societario. In questo ambito rientrerebbero società quali Poste e Ferrovie dello Stato, operazioni che richiederebbero peraltro un periodo di preparazione per assicurare il successo del piazzamento. Per esempio, quote di Bancoposta, Rete Ferroviaria Italiana e anche Anas potrebbero essere cedute a investitori privati e risparmiatori, sempre che fossero disposti a investimenti per il medio-lungo periodo, con rendimenti alquanto stabili benché non esaltanti.

Il beneficio per la riduzione del debito pubblico potrebbe, tuttavia, risultare effimero, se i proventi non fossero usati per ritirare dal mercato fette del debito pubblico e allo stesso tempo se non si ponesse un freno alla creazione di nuovo debito. L’esperienza del passato non depone bene. Nonostante le dichiarazioni programmatiche dei governi dal 2010 si è ceduto poco e sempre meno di quanto annunciato. Inoltre, solo una piccola frazione del ricavato è servito a ritirare debito pubblico, mentre buona parte è andata a coprire il fabbisogno per finanziare la spesa pubblica. Se non si frena la dinamica della spesa in disavanzo e non si introduce un vincolo giuridico di destinazione obbligatoria delle risorse ottenute dalle dismissioni per abbassare la consistenza del debito, queste operazioni equivalgono alla vendita dell’argenteria di casa per coprire debiti, a cui seguiranno ancora altri.

Se non si aggredisce la causa del nuovo debito, l’operazione è fallimentare, in quanto ci si priva di un avere patrimoniale per coprire un disavanzo che si ripresenterà nell’anno successivo, quando non si disporrà più di quell’avere, né dei frutti che genera annualmente. Per esempio, cedere azioni dell’Eni implica rinunciare ai futuri dividendi che esse avrebbero dato e quindi si giustifica economicamente solo se riduce l’onere complessivo della remunerazione del debito. Se non avvenisse, la cessione servirebbe solo a ritardare una correzione sempre più dura, che sarà inevitabile con l’entrata in vigore del nuovo Patto di Stabilità.

Ma il Mef intende utilizzare i proventi anche per acquisire nuove partecipazioni. Questo caso presenta profili differenti dalla cessione per ripagare debito e non si configura nemmeno come una scelta di portafoglio analoga a quella che farebbe un investitore privato, che opera per massimizzare il rendimento del suo capitale. Rappresenta, piuttosto, il risultato di una scelta di politica industriale in cui a fronte dell’accensione di un eventuale nuovo debito si registra un nuovo avere patrimoniale, con un dato valore, con l’obiettivo di ottenere una determinata composizione produttiva in un settore economico. Lo si è visto con l’acquisizione di Ita nel settore del trasporto civile, con Open Fiber in quello delle reti a fibra ottica e forse lo si rivedrà con il nuovo assetto dell’Ilva nella siderurgia.

In questi casi prevale la scelta d’intervenire direttamente nel mondo delle imprese piuttosto che la convenienza nel confronto tra il valore del debito estinto con la cessione di un avere e quello nuovo in cui si incorrerebbe per ottenere un altro avere. Proprio sul piano di questa soverchiante ragione economica si dovrebbe disporre di chiarezza sul piano di politica industriale che si intende perseguire in un arco pluriennale. Purtroppo, su questo aspetto manca un quadro organico di riferimento che vada oltre i programmi di singoli ministri, che si rivolgono ai comparti produttivi o finanziari di loro competenza, con poco coordinamento tra gli stessi e senza una chiara definizione dei confini tra il campo sotto diretto e indiretto controllo pubblico e quello privato. L’impressione è, piuttosto, che la linea distintiva tra i due campi sia divenuta sempre più labile, anche sfuggente, e che l’intromissione pubblica sia ormai a tutto campo.

Pur in mancanza di un quadro organico di riferimento, alcune tendenze di politica industriale sono evidenti nell’azione dei governi negli ultimi venti anni. Alla fase di privatizzazioni dagli anni Novanta fino alla metà del primo decennio, è seguita una di progressiva partecipazione nel capitale di imprese grandi e meno grandi. L’intervento è stato dettato dall’esigenza di proteggere l’“italianità” di imprese ritenute determinanti per lo sviluppo della produzione, dell’occupazione e delle tecnologie. Di solito lo Stato è intervenuto in funzione di soccorso di fronte a crisi che mettevano a repentaglio grandi numeri di occupati, di risorse finanziarie, di competenze industriali e tecnologiche. Casi emblematici sono quelli del Monte dei Paschi di Siena, Ita, STMicroelectronics e Leonardo. La tendenza è stata rafforzata durante la crisi economica provocata dalla pandemia ed è continuata successivamente per aiutare le imprese a ristrutturarsi e rilanciarsi.

Per non intervenire direttamente si è fatto ricorso a società pubbliche d’investimento, come Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia, che permettono di non espandere il debito pubblico apparente in quanto si finanziano sul mercato. Di fatto lo Stato ha operato attraverso queste società come una banca d’investimento ombra che assume partecipazioni e compie altre operazioni finanziarie per rispondere a esigenze dello Stato. L’intervento pubblico non si è limitato alle grandi imprese, ma si è anche indirizzato a sostenere le imprese meno grandi in varie forme. Per esempio, si è offerta la garanzia pubblica a favore delle piccole e medie imprese italiane tanto su operazioni di indebitamento, quanto su investimenti in partecipazioni azionarie. In quest’ultimo caso i risultati sono stati deludenti. A queste partecipazioni al capitale va aggiunta la galassia delle aziende partecipate dagli enti regionali e locali, che sono in gran numero e che in caso di disavanzo attingono presso lo Stato. Queste imprese hanno, peraltro, la possibilità di alzare il prezzo dei servizi offerti riversando sugli utenti l’onere di copertura dei disavanzi.

Se si cumulano il rischi finanziari assunti attraverso partecipazioni dirette, indirette, garanzie e assicurazioni si osserva che l’esposizione finanziaria dello Stato è molto più ampia di quella misurata dal debito pubblico oggetto di monitoraggio da parte della Commissione europea e dei mercati finanziari. Il criterio cardine per valutare la validità di questa intrusione pubblica nel mondo delle imprese sta nel verificare se è servito o servirà a promuovere crescita economica e diffusione di aziende sane e competitive in una fase di rivoluzione tecnologica. Su questo piano il giudizio è incerto e certamente con luci e ombre. Né ci può confortare che nei nostri partner comunitari si riscontrano le stesse pratiche, perché queste contribuiscono a fare dell’Unione europea l’area economica che non riesce a crescere e ad adeguarsi al tumultuoso mutare dell’economia nel mondo. In Italia, nondimeno, non saranno le privatizzazioni e il riordino delle partecipazioni a sanare gli squilibri del debito e della crescita.

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