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Perché ricchezza e redditi degli italiani sono in apparente disaccordo. L’analisi di Zecchini

La Banca d’Italia ha pubblicato i nuovi conti sulla ricchezza degli italiani e sulle disparità di distribuzione, un quadro che però sembra non collimare con quello che risulta dalle statistiche sui redditi prodotte dall’Istat. Disaccordo che appare tanto più sorprendente se si considera che i dati sono il frutto di un progetto europeo della Bce, che mira a combinare grandezze macroeconomiche dei conti nazionali con informazioni microeconomiche sulla distribuzione dei redditi… L’analisi di Salvatore Zecchini

La pubblicazione da parte della Banca d’Italia dei nuovi conti sulla ricchezza degli italiani e sulle disparità di distribuzione offre un quadro che apparentemente non collima con quello che risulta dalle statistiche sui redditi prodotte dall’Istat. Il disaccordo appare tanto più sorprendente se si considera che i dati sulla ricchezza appena pubblicati sono il frutto di un progetto europeo della Bce, che mira a combinare grandezze macroeconomiche dei conti nazionali con informazioni microeconomiche sulla distribuzione dei redditi tratte dalle indagini sui bilanci delle famiglie e da fonti amministrative e bancarie. Ovviamente, reddito e ricchezza sono misure diverse del benessere umano, in quanto il primo riguarda quanto viene prodotto in un dato periodo e la seconda quanto è stato accumulato attraverso la rinuncia al consumo e l’impiego per scopi fruttiferi. Ma tra le due grandezze vi è un collegamento nel senso che, con l’eccezione delle risorse naturali, non vi è ricchezza senza che sia stata prodotta precedentemente.

In questa connessione, interviene anche il binomio quantità-valore. Il valore della ricchezza, come pure del reddito, può cambiare anche se non muta la loro quantità. Nella realtà, entrambi cambiano col variare dei prezzi di mercato e delle scarsità relative col risultato che fluttuazioni della ricchezza possono divergere da quelle del prodotto. Le ultime evidenze lo confermano sia in aggregato, sia nella distribuzione tra la popolazione. Secondo l’Istat, il reddito pro-capite dal 2010 al 2021 ha mostrato in prevalenza la tendenza a diminuire, con un calo di circa l’1% a fine periodo, mentre la Banca d’Italia calcola che la ricchezza netta pro-capite è aumentata del 10,8%. Altra discrepanza si riscontra tra l’andamento della concentrazione dei redditi e quello della ricchezza.

Nella distribuzione di quest’ultima si manifestano diversità di andamento e di risultato tra le varie classi di patrimoni. Alla stabilità di quella dei meno abbienti (sotto il 50% della distribuzione) nel confronto tra 2010 e 2021 si contrappone il calo del 14,6% della classe mediana (tra 51 e 60% della distribuzione) e l’incremento del 14,4% della classe a maggior ricchezza. Quest’ultima è l’unica che accresce la sua consistenza a differenza delle altre considerate. Altre evidenze dell’Istat indicano che la classe dei redditi più bassi nel periodo della pandemia aveva beneficiato di un aumento del reddito disponibile per effetto delle misure di sollievo in denaro e natura accordate dal governo.

Il confronto di singoli anni non rende conto delle variazioni negli anni intermedi che determinano tendenze di medio periodo degne di un’esplorazione più attenta, prima di giungere a conclusioni. Negli anni della crisi debitoria 2011-2015 e fino al 2016 si assiste all’arretramento del reddito pro-capite in contrasto con una sostanziale stabilità della ricchezza pro-capite. Il patrimonio della classe mediana e in minor misura della media delle classi (in decili) si contrae ininterrottamente per sei anni e dal 2017 si stabilizza, per recuperare in parte in questo decennio. La distribuzione della ricchezza si concentra nella classe maggiore, con una quota in ascesa dal 40% al 48% nel 2017 per il 5% più facoltoso e all’opposto si assottiglia dal quasi 9% circa al 7% per il 50% delle famiglie dai patrimoni in basso.

La conferma si trae dall’indice di concentrazione di Gini, che sale fino al 2017 per ripiegare parzialmente negli anni successivi. A fine periodo d’esame, il secondo trimestre 2023, il 46% della ricchezza netta si concentrava nel 5% delle famiglie più facoltose, in contrasto col poco più del 7% che era detenuto dalla metà delle famiglie con averi inferiori. In altri termini, i soggetti più abbienti sono riusciti a difendere ed incrementare la consistenza dei loro patrimoni in periodi di stagnazione dell’economia. La ricchezza della metà dei censiti si è mantenuta negli anni a poco più del 3% di quella del 10% più in alto. Se si esclude questo 10% più patrimonializzato, le distanze tra il 50% dei soggetti meno abbienti rispetto alle classi superiori si accorciano, con un particolare restringimento delle disuguaglianze con le classi intermedie, ovvero il sesto e il settimo decile.

Dall’andamento delle consistenze patrimoniali nei 12 anni si evidenzia che solo la classe al top ha accresciuto il suo patrimonio in misura consistente (19,1%) e all’altra estremità la metà in basso ha mantenuto la stessa consistenza, mentre le classi intermedie hanno registrato un’erosione dei loro averi. Come spiegare questi andamenti in un’economia che non riesce a crescere? La risposta va cercata in diversi fattori, con in primo piano la composizione stessa della ricchezza e la condizione lavorativa. Per entrambi rileva l’evoluzione di prezzi e retribuzioni distintamente dalle quantità.

L’aspetto principale è rappresentato dal grande distacco che caratterizza la composizione di portafoglio dei più facoltosi, ovvero il 10% più alto, rispetto a tutte le altre categorie. Soltanto in questa classe l’incidenza dell’investimento immobiliare (abitazioni) si limita a poco più di un terzo del totale (35,6%), riducendosi dal 41,4% del 2010. Con l’aumentare della ricchezza si restringe il peso degli immobili, a cui peraltro vanno aggiunti gli averi non finanziari di impresa (10,7%). In contrasto, si dilata notevolmente la ricchezza finanziaria (al 39,7%), che nel 2010 incideva per il 23,6%. Si è verificato, in essenza, un processo di finanziarizzazione dei maggiori patrimoni, che riflette l’occasione offerta dall’investimento sui mercati finanziari, in particolare nelle azioni e nelle altre partecipazioni al capitale di rischio. In anni in cui i tassi d’interesse sono scesi su livelli storicamente molto bassi e perfino negativi, la ricerca di rendimento ha spinto i soggetti con maggiore consistenza patrimoniale a spostarsi verso forme d’impiego più rischiose e più redditizie.

Questo orientamento ovviamente presuppone una capacità comparativamente più elevata di esporsi al rischio finanziario, un livello superiore di conoscenza del funzionamento dei mercati e una competenza nell’analisi dell’andamento delle imprese. In quel periodo, infatti, il costo dell’indebitamento è stato su livelli particolarmente convenienti, l’innovazione dei prodotti finanziari molto rapida e multiforme, i margini di utile realizzati dalle società in aumento e le tecnologie digitali promettevano grandi rendimenti. L’indice azionario EuroStoxx 600, ad esempio, è salito di valore del 175% dalla fine del 2010, e quello americano S&P 500 di 4 volte circa. L’indice dei titoli tecnologici Nasdaq composite è aumentato di due volte negli ultimi cinque anni. In controtendenza, il prezzo medio delle abitazioni, misurato dall’Istat, è crollato fino al 2020 del 16,6% circa e ancor più per quelle non nuove, con una ripresa parziale (5% circa) soltanto nell’ultimo triennio. A questa caduta è da attribuirsi buona parte dell’erosione subita dalla ricchezza delle classi intermedie, i cui investimenti erano concentrati negli immobili.

L’insieme di queste condizioni apparentemente non si ritrova in misura sufficiente tra i soggetti con classi di ricchezza intermedie e basse. La loro propensione ad affrontare il rischio dei mercati finanziari probabilmente non è stata pari a quella della classe maggiore e lo stesso potrebbe dirsi per la maggioranza dei soggetti nel conoscere i mercati finanziari e le condizioni delle imprese. Qualche progresso in ogni caso si è compiuto: la diffusione dei mezzi di informazione ed istruzione economico-finanziaria ha contribuito a rendere la platea dei risparmiatori sempre più consapevoli delle opportunità di impiego offerte dai mercati e ha accresciuto l’attenzione alla gestione del loro risparmi.
Nondimeno, le indagini della Banca d’Italia segnalano che nella popolazione resta ancora margine per raggiungere un livello sufficiente di alfabetizzazione finanziaria. L’indice complessivo, che è la risultante dell’analisi delle conoscenze dei risparmiatori, del comportamento di gestione e dell’atteggiamento verso gli impieghi, si ferma al livello 10,6 su una scala da zero a 20. Il livello varia tra soggetti: aumenta con l’avanzamento del titolo di studio, è minore tra i giovani e gli anziani, e presenta un lieve distacco di genere, ovvero delle donne rispetto agli uomini.

Sulle disparità di ricchezza influisce anche la condizione lavorativa. Tra le quattro categorie rilevate dalla Banca d’Italia, i lavoratori autonomi risultano i più dotati patrimonialmente, a grande distanza dai lavoratori dipendenti e dai disoccupati, il cui patrimonio si colloca all’estremo più basso (al 10,6% del patrimonio degli autonomi). Nel 2023, la ricchezza dei dipendenti era meno di un terzo (27,4%) di quella dei primi. Ma anche questi ultimi non hanno beneficiato della finanziarizzazione dei portafogli di cui si sono giovati i più facoltosi. Per i pensionati, come per i lavoratori dipendenti, il valore delle loro abitazioni rappresenta oltre il 70% dei loro averi, ma sotto il picco del 75% per i disoccupati. Sorprendentemente, la categoria dei pensionati è l’unica che accusa un calo della consistenza patrimoniale rispetto al 2010. Ovviamente, si tratta di medie di distribuzione statistica di cui non è nota la dispersione dei valori.

Nel confronto con i maggiori Paesi partner, il grado di disuguaglianza della ricchezza netta delle famiglie italiane nel 2023 è al di sotto di quello della Germania e dell’area dell’euro, un risultato riconducibile alla più ampia quota di ricchezza immobiliare detenuta dalla metà meno abbiente delle censite italiane. In particolare, la loro quota di ricchezza, benché modesta, supera quelle corrispondenti di Germania, Francia ed eurozona, ed è sopravanzata solo di poco da quella spagnola.

Nell’insieme, la contabilità della ricchezza presentata dalla Banca d’Italia non induce a trarre facili conclusioni sulle divisioni di censo tra la maggioranza costituita dai ceti meno abbienti e un ristretto gruppo di molto facoltosi. Né offre solidi riferimenti per valutare quale grado di concentrazione della ricchezza sia compatibile col mantenimento della “pace sociale” e quanto intensamente vadano impiegati gli strumenti della redistribuzione. La stessa contabilità è soggetta a margini di stima, come ammettono gli autori nel confronto con i risultati di più recenti indagini sui bilanci delle famiglie, pur insistendo sulla robustezza dei loro risultati. Se si esclude il 5% delle famiglie più abbienti, la concentrazione della ricchezza si diluisce significativamente, anche a causa della modesta disomogeneità dei comportamenti delle altre classi in fatto di risparmio e di suo impiego.

Sono piuttosto le disparità dei redditi disponibili e delle loro fonti che potrebbero fornire un metro idoneo per stimare quanto intollerabile sia l’estensione dei ceti “poveri”, tenendo conto del vasto ambito di prestazioni sociali che il sistema di welfare mette a disposizione dei meno abbienti. Analogamente, prima di scandalizzarsi per le ricchezze di pochi, ci si dovrebbe interrogare su quanta parte dei loro averi sia il frutto del lavoro, del talento e della preparazione, e quanta invece, il prodotto di rendite immeritate, se non addirittura di illeciti.

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