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Le economie del G7 divise dalla recessione. L’analisi di Zecchini

Tre su sette si trovano in una recessione “tecnica”. Le altre affrontano rallentamenti o stagnazione. Per allinearsi all’economia americana l’Europa ha bisogno di politiche più flessibili e orientate al futuro. L’analisi di Zecchini

Singolare la diversità di condizioni delle economie del G7 nel quadro della post-globalizzazione. Tre su sette sono costrette a districarsi da una recessione “tecnica” che le ha colpite negli ultimi due trimestri dell’anno scorso. Una, quella italiana, che cerca di risollevarsi dalla stagnazione che la assimila a quella dell’eurozona e del Canada, che ha conosciuto un forte rallentamento nella seconda metà del 2023. Una sola economia, quella americana, continua ad espandersi, sebbene con moderazione nell’anno corrente.

Sembra che nel mutato quadro geoeconomico, che ha preso il posto della globalizzazione in auge fino al primo decennio del secolo, la diffusione degli impulsi, sia positivi, sia negativi promananti dalle maggiori economie abbia assunto un carattere regionale, con riflessi che si estendono dalle economie leader principalmente ai Paesi con cui sono maggiormente integrati. Compensare le ripercussioni sfavorevoli con opportune politiche non ha avuto successo in tutti i Paesi coinvolti. Un esempio è dato dall’andamento economico nei Paesi dell’Asean: nel 2023 hanno risentito della debolezza della domanda cinese, ma sono riusciti a compensarne gli effetti con fattori interni di crescita, quali la robustezza della spesa per consumi ed investimenti. Dell’espansione americana ha tratto vantaggio quella messicana, ma meno quella canadese, malgrado la sua connessione con la prima nell’ambito dell’accordo di libero scambio Usmca.

Il fenomeno è osservabile anche nei Paesi del G7. L’economia americana, che è relativamente meno dipendente dalla domanda esterna rispetto alla europea e alla giapponese, contro ogni previsione ha finora assorbito l’impatto della restrizione monetaria attraverso misure che hanno assecondato la tenuta della domanda dei consumatori e di quella delle imprese per investimenti. Quella europea, invece, ha beneficiato poco della resilienza dell’attività economica d’oltreoceano, mentre ha accusato l’impatto della cattiva congiuntura in Germania, economia leader, dello shock della guerra in Ucraina, della rottura delle catene internazionali di approvvigionamento e del peggiorare del clima degli investitori e dei consumatori. Analogamente, l‘andamento dell’economia giapponese mostra notevole sensibilità all’evolvere dei mercati asiatici ed europei, nonché ai nuovi ostacoli introdotti nei rapporti commerciali e finanziari da altri grandi Paesi.

Attualmente non si è di fronte a un generalizzato crollo dell’attività economica, né in Europa, né in Giappone, perché la profondità della recessione “tecnica” è bassa, circoscritta ed in prospettiva si attende quest’anno una graduale uscita dal fondo del ciclo congiunturale. In Germania il calo del prodotto interno lordo reale dello 0,3% nell’ultimo trimestre, dopo la crescita nulla nel terzo trimestre, dovrebbe lasciare il posto a una lenta ripresa, secondo le ultime proiezioni della Commissione europea. Nell’insieme dell’Unione l’andamento è risultato sostanzialmente piatto, lasciando prevedere il ritorno una crescita lievemente maggiore nei prossimi trimestri. In Giappone la flessione è diminuita da un -0,8% a -0,1% nell’ultimo trimestre. In contrasto, l’economia del Regno Unito è entrata in una recessione “tecnica” che si è approfondita dallo 0,1% del terzo trimestre allo 0,3% nell’ultimo.

Il parallelismo di andamenti tra Europa e Giappone, al pari della contrastante evoluzione nel Regno Unito, è il prodotto di fattori solo in parte in comune a causa della presenza di tratti idiosincratici che attengono alle differenti condizioni economiche preesistenti alla crisi pandemica e alle politiche attuate successivamente. Sono in comune lo shock energetico che ha fatto impennare i corsi dei prodotti petroliferi e diffuso spinte inflazionistiche in tutti i Paesi e nei mercati degli altri prodotti. Altrettanto diffusi gli effetti delle sanzioni economiche alla Russia e ai suoi alleati col risultato di segmentare i mercati internazionali, ridurre le occasioni di scambi commerciali e spezzare filiere di produzione e anche di fornitura. Negli scambi di prodotti strategici, quali i semiconduttori avanzati e i materiali rari sono state introdotte barriere che hanno determinato circuiti commerciali più ristretti che nel passato e quotazioni più elevate. Gli scontri armati in Europa e Palestina e le tensioni per Taiwan hanno causato distorsioni nelle correnti commerciali, deviazioni dei traffici, aumenti dei costi dei trasporti e una corsa agli armamenti. Nei bilanci pubblici dei Paesi maggiormente interessati si è dovuto dare più spazio alle spese per la difesa e agli armamenti, nonché investire più intensamente nella ricerca e innovazione.

Sullo sfondo di questi nuovi eventi campeggiano due sconvolgimenti di vasta portata: la rivoluzione digitale, segnatamente l’avanzare degli impieghi dell’intelligenza artificiale, e la sempre più pressante esigenza di contrastare il cambiamento climatico. Sebbene l’insieme di questi fattori abbia portata globale, i Paesi ne risentono e hanno reagito diversamente perché devono confrontarsi anche con altri più specifiche circostanze. In questo quadro hanno un notevole peso tanto l’intensità dei nuovi eventi a cui è esposto, quanto le politiche seguite per gestire il loro impatto sulla società e sull’economia. Le parallele recessioni in Europa e in Giappone solo apparentemente sono assimilabili nella loro razionalizzazione e nel tracciare il corso futuro delle loro economie. Entrambe, tuttavia, condizionano l’evolvere dell’economia mondiale nei prossimi anni, di cui probabilmente si parlerà al prossimo vertice del G7 in Italia.

L’Unione europea è molto più esposta di Stati Uniti e Giappone agli sconvolgimenti prodotti dall’aggressione russa. Questa ha infranto il disegno europeo di integrazione di quel Paese tra le democrazie occidentali e ha messo a nudo i rischi della grande dipendenza dell’Unione europea per le forniture energetiche e di materie prime. Allo stesso tempo ha privato gli europei di un importante mercato di sbocco per i loro prodotti, lasciando le imprese con vuoti di ordini ed urgenza di ristrutturare le loro strategie produttive e commerciali. In Germania, che più degli altri partner aveva scommesso in quel disegno, il sistema produttivo è attualmente alle prese con le difficoltà di riorganizzare le sue strategie, nonché di dover tenere conto della debolezza della domanda cinese per i suoi prodotti e della sempre più forte concorrenza delle imprese cinesi nel settore dei trasporti e in altri comparti.

Lo stesso riorientamento tocca diversi partner comunitari, segnatamente l’Italia, che finora sembra essere riuscita nel compito di ristrutturare in un paio di anni le reti di approvvigionamento energetico e di prodotti primari, e ha mostrato una capacità di diversificare i mercati di esportazione. Ma il processo di ristrutturazione produttiva e di mercati, per l’Europa come per l’Italia, è ancora in corso e comporta tempi non brevi, il che spiega perché la ripresa economica, particolarmente in Germania, avviene con inaspettata lentezza.

Il Regno Unito non è esente da questi problemi di riorganizzazione e ristrutturazione, offrendo con la sua recessione nel 2023 un’idea di quanto sia impervio e lungo il percorso da compiere in assenza di chiare strategie e coerenti politiche attuative. Nel suo caso, agli shock esterni analoghi al resto dell’Europa si aggiunge quello della Brexit, iniziata nel 2017 e conclusa con l’uscita dal mercato unico dell’Unione nel dicembre 2020. Nel periodo 2018-2023 la crescita media annua ha superato di poco quella europea, benché le autorità si attendessero di poter andare oltre una volta liberi dai vincoli comunitari, ma l’inflazione è stata più alta e ancora più difficile da piegare.

La recente recessione in Giappone avviene in un anno in cui l’economia è uscita dalla deflazione e l’inflazione ha raggiunto un picco di più del 3% annuo dopo decenni di oscillazioni attorno allo zero percento, pur in un contesto di ultra-accomodamento monetario e sostanziosi disavanzi nel bilancio pubblico. Anche la sua crescita economica ho sofferto della debolezza della domanda cinese ed europea, e delle sanzioni economiche e le altre restrizioni al commercio internazionale, ma è riuscita a espandersi nell’ultimo biennio fino alla prima metà del 2023. Questo risultato è stato ottenuto con una gestione macroeconomica che da molti anni si è distanziata da quella europea ed americana.

Recessione e bassa crescita in Europa non hanno corrispondenza nell’economia americana, che invece ha mostrato dalla crisi finanziaria globale del 2008 una maggiore capacità di espandersi, di rinnovarsi e di contenere le tensioni sui prezzi. Il migliore andamento è attribuibile sia a un minor ritardo delle autorità a reagire ai segnali di rallentamento e di tensioni sui prezzi, sia al ricorso a strumenti di politica industriale, sia ancora ai minori vincoli a cui sottostanno imprese e finanze pubbliche rispetto all’Unione europea. Ha investito maggiori risorse nelle industrie ritenute strategiche, ha fatto un uso “strategico” degli strumenti di politica commerciale (restrizioni e tariffe doganali), ha stimolato la ricerca e l’innovazione, ed ha lasciato più spazio all’iniziativa privata. L’Europa ha seguito una linea simile, ma con minore impegno di risorse, più regolamentazioni e maggiore attenzione agli squilibri nei bilanci pubblici nazionali.

Alla luce di queste differenze, quali politiche l’Europa dovrebbe seguire per portarsi al passo dell’economia americana? Attualmente sul piano monetario vi è un sostanziale allineamento, ma sul piano delle altre politiche le distanze si allargano. I Paesi europei, in particolare, si trovano a doversi impegnare in nuovi programmi pluriennali di riduzione di disavanzi e debiti pubblici in un contesto di bassa crescita. Bisogna forse abbandonarli per poter crescere? La risposta è senza dubbio negativa, ma bisogna rendere quei programmi più sostenibili e selettivi nel favorire il nuovo e non difendere inutilmente l’obsoleto. Se ci riusciranno sarà tutto da vedere.

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