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L’America è un Paese per donne? La riflessione di Frojo

In attesa del voto formale dei delegati, l’esito sembra segnato a favore di Kamala Harris per la corsa alla Casa Bianca dopo Biden. Il partito e gli elettori americani sugelleranno il traguardo storico della presenza femminile, nel solco di un’auspicata maturazione antropologica e culturale di progresso per una società democratica?

Dopo quasi un mese di dibattiti e pressioni, non solo all’interno del Partito democratico, il duello per le elezioni presidenziali americane di novembre, con il recente ritiro della candidatura dell’attuale presidente Joe Biden, è tra Kamala Harris e Donald Trump.

Si conclude, così, l’era Biden. Dalla sua casa di famiglia, nell’isolamento per Covid, ha comunicato la scelta sofferta e ormai attesa, “nell’interesse del partito e del Paese”. Una scelta di solitudine, come sempre la vita richiede nei momenti più difficili.

Un ritiro di dignità, per il presidente che rimarrà in carica fino a gennaio 2025, fine del mandato. Dopo drammatiche sofferenze familiari e di fronte all’invincibile nemico del tempo, ha mostrato al mondo la sua fragilità e, a meno di un mese dalla convention dei democratici alla Casa Bianca, fa un passo indietro. Saper tramontare al momento più giusto, come ricorda il filosofo Friedrich Nietzsche.

Niente “onore delle armi” dall’avversario Trump, né apprezzamento per la subentrante Harris designata da Biden che, intanto, ha ricevuto il sostegno di un numero sufficiente di delegati democratici per ottenere la nomination presidenziale del partito. E dice “batterò Trump”.

Derisa per il suo sorriso (“laffing Kamala”) e definita “pazza e corrotta”, il “tycoon” ostenta sicurezza e assicura che Kamala “sarà più facile da battere”. Nessuna donna è, sul piano personale, risparmiata. “Cervello di gallina”, per Trump, è anche la repubblicana Nikki Haley, già governatrice e ambasciatrice Onu. Ha deciso di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca.

In una campagna elettorale che richiede ora non più slogan e invettive ma contenuti Harris è irrisa ma, in fondo, temuta da Donald Trump. A partire dal “cavallo di battaglia” trumpiano legato all’età. La candidata favorita, classe 1964, ha diciotto anni meno dell’avversario, ed è la donna dei “primati” dal profilo professionale di tutto rispetto.

Kamala Devi Harris (in hindi, “fiore di loto”), è figlia di un professore di economia giamaicano e di un’endocrinologa indiana di etnia Tamil, attivista dei diritti civili e ricercatrice. Ha studiato alla Howard University e all’Hastings College of the Law di San Francisco. Avvocata di successo nel settore dello spettacolo, vice procuratore distrettuale della Contea di Alameda dal 1990 al 1998, nel 2003 è eletta procuratore distrettuale di San Francisco. Rieletta nel 2007, resta in carica fino al 2011. Nel 2010 è procuratore generale della California, rieletta nel 2014 e senatrice dal 2017. Prima donna a ricoprire tale carica, oltre che prima figura asioamericana.

Il Time l’aveva consacrata, nel 2020, come la “futura portabandiera di un partito in transizione”. Donna non bianca, prima a essere candidata a uno dei due incarichi più importanti della politica nazionale nel partito democratico degli Stati Uniti, risponde alle richieste di rappresentanza di diverse identità e sensibilità della politica americana.

Tra i nomi emersi nella concitata corsa alla Casa Bianca, accanto a quelli maschili ci sono quelli di alcune donne, come Michelle Obama, che tuttavia ha dichiarato di non avere interesse alla candidatura, e Gretchen Esther Whitmer, stimata governatrice del Michigan, e non è esclusa la possibilità di una doppia presenza femminile in ruoli di vertice, nella più grande potenza del mondo.

In attesa del voto formale dei delegati, l’esito sembra segnato a favore di Harris. Il partito e gli elettori americani sugelleranno il traguardo storico della presenza femminile, nel solco di un’auspicata maturazione antropologica e culturale di progresso per una società democratica?

L’ultimo rapporto del Global gender gap ha sancito che una parità di genere sarà raggiunta, a livello globale, tra 134 anni, e gli Stati Uniti occupano solo il trentunesimo posto nella classifica del World economic forum.

Nel Paese raccontato come esempio di emancipazione femminile, le donne sono, infatti, meno retribuite dei colleghi uomini e le politiche sociali non adeguate a garantire alle donne condizioni di parità nel mondo del lavoro, con riguardo a maternità e cura dei figli. Anche il movimento Me too, nonostante l’alto numero di molestie, abusi e femminicidi, per buona parte della popolazione non solo maschile, è considerato ingiusto e aggressivo.

Secondo alcune ricerche, tuttavia, gli americani sarebbero aperti alla prospettiva di eleggere un leader donna. Un’analisi condotta da Pew Research Center ha rilevato che, per la maggioranza degli intervistati, un presidente donna non sarebbe né migliore né peggiore e che il genere non abbia importanza. Mentre, per coloro che vedono una differenza di genere, circa il 39% afferma che una donna sarebbe più abile a mantenere toni moderati in politica e a raggiungere compromessi.

Circa un terzo, inoltre, riconosce alle donne maggiore etica e coerenza nelle scelte politiche. Le valutazioni più favorevoli alla leadership femminile sarebbero riferibili più ai democratici che ai repubblicani, più elevate (un quarto delle intervistate) tra le donne under 50 rispetto a quelle over 50 (17%) e agli uomini (13%), per questi ultimi a prescindere dall’età.

Nelle precedenti elezioni americane, il voto delle donne è stato fondamentale per i democratici, impedendo l’affermazione di molti candidati di parte avversaria.

Sono solo venti le donne capi di Stato e di governo, a livello globale. E, per il 2024, anno record delle elezioni nel mondo, nel blocco occidentale stupisce la carenza di candidate. Mentre le recenti analisi evidenziano i benefici della rappresentanza bilanciata per genere e come, in via generale, le donne siano meno corruttibili, abbiano una minore probabilità di avere processi criminali a carico e di accumulare asset quando sono al potere. Le donne, infine, sanno rinunciare al potere se ritengono di aver esaurito il proprio contributo o che sia arrivato il momento di voltare pagina. È il coraggio delle donne, in un modello di leadership che si va affermando.

Al confine degli Stati Uniti, da giugno scorso, Claudia Sheinbaum Pardo, 62 anni, è la prima donna presidente nella storia del Messico. Fisica, ingegnere e ricercatrice. La lotta alla violenza di genere è stato uno dei cardini fondamentali della sua campagna elettorale, in un Paese che conta oltre tremila donne assassinate all’anno. Dal 2019 il Messico ha, tuttavia, sancito la parità di rappresentanza nella sua costituzione elevando in maniera significativa il livello di partecipazione femminile in parlamento. Una situazione che fa riflettere.

Dietro il sorriso, intanto, Kamala affila le proprie armi. Simbolo dell’America multietnica, fautrice di politiche progressiste, è entrata in silenziosa campagna elettorale ma a gamba tesa a difesa dell’aborto, dopo la sentenza della Corte Suprema, dopo una vice presidenza ancillare un po’ opaca. Aspirante regina sotto riflettori alla quale i potenziali sfidanti nel giro di poche ore hanno giurato fedeltà, con appoggio dell’influente ex speaker della Camera Nancy Pelosi, guarda ai diritti di tutti. Anche di quelle donne che, si spera, non perderanno, questa volta, l’occasione di sottrarsi a suggestioni, al momento del voto.

“Ho battuto predatori sessuali e truffatori. So bene che tipo è Donald Trump”, sono state le sue parole da candidata.

Il sorriso accoglie e nutre fiducia, è risorsa per scardinare odio e abbattere visioni distorte anche nella politica e nella società. Sono i valori delle donne. Un’arma potente, per Kamala Harris.

Secondo quanto sta emergendo, mentre è già incasso record di finanziamenti per Harris, una prima “mossa” vincente è nelle sue mani per una donazione che Trump le avrebbe fatto per la nomina a procuratrice capo della California nel 2011. Somma non incassata e da lei versata a favore di un’associazione di beneficenza.

In un difficile quadro geopolitico ed economico e in un mondo sconvolto da drammatiche guerre, in un Paese profondamente diviso, l’obiettivo è, dunque, un autentico cambiamento valoriale quale veicolo di speranza. Capacità di mediazione, condivisione, creatività, lungimiranza e nuove prospettive rispetto a invettive personali e a una visione individualista del potere, in una competizione che appare comunque difficile, sono il traguardo da raggiungere e nel quale tutti ora vorremmo credere.

Saranno le donne, votanti ed elette, a fare la differenza?



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