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Contenere il conflitto o combattere. Washington e il dilemma Medio Oriente

La crescente presenza militare americana in Medio Oriente mira a contenere le tensioni, ma solleva preoccupazioni riguardo alla capacità globale del Pentagono. Nonché sul possibile impatto sulle scelte politico-militari di Israele

Ottobre 2023. A pochi giorni dall’operazione terroristica su larga scala lanciata da Hamas, la portaerei Uss Gerald Ford accompagnata dal suo carrier strike group arriva nel Mediterraneo Orientale; a breve, il gruppo della Gerald Ford sarà raggiunto da quello della Dwight D. Eisenhower, salpato direttamente da Norfolk. Il duplice obiettivo del Pentagono era quello di mandare un messaggio agli attori nella regione (e in primis all’Iran), allo stesso tempo rendendosi capace di reagire ad ogni sviluppo che possa minacciare la sicurezza degli interessi di Washington.

Nel corso dei dodici mesi successivi, mentre le dinamiche di conflitto si allargavano arrivando a coinvolgere Yemen, Iran e Libano, il Pentagono ha aumentato significativamente la sua presenza militare nella regione. La recente decisione di schierare migliaia di ulteriori truppe e raddoppiare la potenza aerea nella regione riflette una crescente preoccupazione per la possibilità che il conflitto si espanda, mettendo a rischio la stabilità regionale. Tuttavia, questa massiccia mobilitazione militare solleva anche interrogativi all’interno del Pentagono. Come quello riportato dal generale Charles Q. Brown Jr., capo del Joint Chiefs of Staff, che ha sollevato dubbi sugli effetti a lungo termine dell’impegno americano in Medio Oriente sulla prontezza militare per affrontare altre sfide, come una possibile crisi con Cina o Russia. “Ciò che accade in una parte del mondo ha un impatto su altre parti del mondo”, ha detto il generale Brown al Council on Foreign Relations di New York la scorsa settimana, “Dobbiamo assicurarci di essere in grado di fare questi collegamenti, in modo da non essere sorpresi in un secondo momento perché ci siamo concentrati solo su un’area”.

O quello sugli impatti della rafforzata presenza militare americana nella regione. L’amministrazione Usa guidata da Joe Biden si trova a bilanciare il sostegno a Israele con il rischio di esacerbare la situazione. E diversi funzionari del Pentagono, secondo quanto riporta il New York Times, hanno espresso preoccupazione per il fatto che Israele stia conducendo una campagna sempre più aggressiva nei confronti della milizia libanese filo-iraniana Hezbollah, sapendo che un’armata di navi da guerra americane e decine di aerei d’attacco sono pronti a smorzare qualsiasi risposta iraniana. Esattamente come avvenuto nei giorni scorsi, quando le navi americane (e inglesi) hanno contribuito a neutralizzare il lancio di missili iraniani contro il territorio di Israele.

“In questo momento, c’è uno schieramento di forze sufficiente nella regione per cui, se gli iraniani dovessero intervenire, potremmo e vorremmo sostenere la difesa di Israele. Se sei Israele e sei un pianificatore militare, vuoi fare tutto questo mentre queste forze sono nella regione, non dopo che se ne sono andate”, è il commento di Dana Stroul, il più alto funzionario del Pentagono per la politica del Medio Oriente fino all’anno scorso.

In questo preciso momento, la capacità di Washington di limitare l’aggressività del governo di Benjamin Netanyahu è alquanto limitata, con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti che si terranno tra un mese. Già dalla seconda settimana di novembre, la situazione potrebbe cambiare. Ma fino ad allora, per Tel Aviv è più facile giocare d’iniziativa, anche nei confronti dle suo strettissimo partner.

 



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