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Tempo di politiche post-industriali

L’interesse alla competitività dell’Unione europea non è cominciato con la crisi dell’euro. La difesa delle posizioni di forza dell’Europa nell’economia mondiale è stata, dopo tutto, una causa fondamentale della creazione del mercato comune. Da allora, l’interesse alla competitività europea è cresciuto, in particolare a motivo della sfida posta da Paesi come la Cina. Per garantire una crescita sostenibile e inclusiva sul Vecchio continente, i legislatori e le opinioni pubbliche devono fare soprattutto una cosa: guardare allo scambio di merci e servizi internazionali come a un meccanismo a somma positiva. Gli aumenti di produttività e l’innovazione sono fondamentali per cogliere i benefici di questo meccanismo. A tal fine, le politiche europee a costo zero sono altrettanto, se non più, importanti di quelle che richiedono fondi pubblici.
 
Il primo passo è dunque smettere di considerare il commercio mondiale come un gioco a somma zero che danneggia alcuni mentre beneficia altri. Naturalmente, le imprese di uno stesso settore sono in diretta competizione tra di loro e i guadagni in termini di quote di mercato vanno a danno dei concorrenti. Ne segue che salari e guadagni di un’azienda aumenteranno se riuscirà a battere i rivali. Purtroppo, molti ritengono che la prosperità di un Paese richieda di battere i concorrenti nello stesso modo. Questa concezione della competitività internazionale continua a motivare un gran numero di iniziative politiche, incluse politiche industriali che mirano a creare e difendere Campioni nazionali e sostenere una varietà di cosiddette “industrie strategiche”. Questo approccio pone due problemi. Primo, alla prova dei fatti non sembra che le politiche industriali aumentino la quota del mercato mondiale di un Paese. Fin troppo spesso gli interventi pubblici basati su considerazioni strategiche sono semplici coperture per politiche protezionistiche verso industrie nazionali, a danno degli altri Paesi – e in ultima analisi, dello stesso Paese protezionista. Secondo, e più importante problema, l’analogia tra imprese e Paesi è profondamente sbagliato. Quando un’impresa diventa più competitiva, tende ad espellere dal mercato i rivali, i quali non ne ricevono dunque alcun beneficio. Ma quando un Paese diventa più produttivo e aumenta le esportazioni, acquisisce le risorse per importare più beni, e in tal modo anche le esportazioni degli altri aumentano. Anzi, spesso la ragione decisiva per aumentare le esportazioni è proprio poter aumentare le importazioni, mentre per un’impresa l’obiettivo è superare i concorrenti e non dover acquistare alcunché da loro.
 
Ecco perché la competitività estera è ciò che il premio Nobel dell’economia Paul Krugman definisce “una pericolosa ossessione” – almeno nella misura in cui è fondata sull’analogia tra imprese e Paesi. Ma se la competitività si riferisce alla produttività, è sempre un concetto significativo. Gli aumenti di produttività e l’innovazione beneficiano i Paesi, non perché li aiutano a competere, ma perché gli danno gli strumenti per produrre e consumare di più, o di produrre e consumare le stesse quantità impiegando meno risorse. In questo senso, la competitività è un prerequisito per un’agenda di crescita per l’Europa. Una consolidata linea di ricerca – di cui sono pionieri l’economista di Harvard Philippe Aghion e i suoi colleghi – ipotizza che l’innovazione sia il driver fondamentale per la crescita economica nei Paesi avanzati. Qui è necessario in prima battuta che le imprese siano esposte a una forte competizione, interna ed esterna. In queste condizioni, le imprese sono costrette ad innovare per sopravvivere.
 
L’Unione europea farebbe dunque bene a combinare il sostegno pubblico alle politiche di ricerca e sviluppo con regole di mercato che costringano le imprese a stare sempre in tensione, al tempo stesso offrendo efficace protezione alle invenzioni che hanno avuto successo. Negli ultimi decenni però la Ue non si è mossa abbastanza vigorosamente su questi fronti, ma non è mai troppo tardi. Ed è sul versante dei servizi che bisogna puntare maggiormente. La nostra esperienza quotidiana ci spinge a considerare l’innovazione in termini di beni più sofisticati o processi e prodotti di maggiore qualità. E certo il manifatturiero è sicuramente una rilevante fonte di innovazione e crescita economica. Ma qualsiasi programma di stimolo alla crescita economica europea non può prescindere dal terziario. I servizi infatti rappresentano circa i due terzi del valore aggiunto della Ue. In termini di occupazione, la loro incidenza è ancora maggiore. Inoltre, a partire dagli anni Novanta, la crescita del prodotto Ue è stata in primo luogo dovuta all’espansione dei servizi. Al tempo stesso, l’aumento di produttività nel terziario europeo è stato molto più lento di quello americano (anche considerando l’ipotesi che i dati pre-crisi del settore finanziario Usa fossero in gran parte fittizi). Ciò implica che esiste un forte margine per aumentare innovazione e produttività del Vecchio continente. Naturalmente, il tipo migliore di questa crescita viene dall’innovazione che punta alla qualità piuttosto che alla quantità, specialmente di lavoro. Pensiamo a salute, educazione e assistenza agli anziani. I guadagni di produttività non dovrebbero tradursi in un minor numero di addetti per paziente, studente o anziano.
 
Diventa qui fondamentale quello che gli economisti chiamano “capitale intangibile”, che deriva da investimenti in ricerca e sviluppo, ma anche dall’investimento nella formazione della forza lavoro, nei miglioramenti organizzativi, di processo e di prodotto.
 
Nei Paesi in cui l’aumento di produttività è dovuto soprattutto a una forte componente terziaria si è investito massicciamente in capitale intangibile, stimolando l’innovazione. È questa la strada che dovrebbe seguire
l’Unione europea.
 
© Project Syndicate 2012/Europe’s World.
Traduzione di Marco Andrea Ciaccia
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