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Perché il Congresso chiede a Trump di essere più severo con Kim

Il Senato degli Stati Uniti sta preparando una votazione che si prospetta bipartisan su una proposta di legge per tagliare fuori dal sistema bancario americano chiunque faccia affari con la Corea del Nord. Sarà inserita sotto forma di emendamento alla legge annuale sui finanziamenti alla Difesa preparata dai senatori, porta la firma di due congressisti, il democratico Chris Van Hollen e il repubblicano Patrick Toomey, ed è già sponsorizzata da James Inhofe, il repubblicano che presiede la Commissione Forze armate della camera alta e che intende introdurre la legge al dibattito tra i legislatori.

LA PROPOSTA

La proposta è in piedi dal 2017, ma ha avuto d’intralcio la fase negoziale con Pyongyang culminata con i due incontri (Singapore, giugno 2018; Hanoi febbraio 2019) tra Donald Trump e Kim Jong-un. Ora, spiega Van Hollen al Washington Post, è arrivato il momento che il Congresso riaffermi con forza che la massima pressione con il Nord è necessaria per indebolire ulteriormente l’economia del regno eremita e convincere Kim che per sopravvivere deve fare quei passi necessari verso la denuclearizzazione. Oltretutto, aggiunge il senatore democratico dal Maryland, “abbiamo notato che l’economia del paese è effettivamente cresciuta nell’ultimo anno”.

TRUMP E KIM

Questa volontà dal Congresso arriva in un momento piuttosto delicato per il dossier nordcoreano. Trump e Kim hanno chiuso l’ultimo faccia a faccia con un nulla di fatto, e anzi, dopo il summit vietnamita, Pyongyang ha riavviato la retorica aggressiva anti-americana e compiuto due nuovi test missilistici, sebbene su vettori a medio raggio (ossia non violando, almeno formalmente, le promesse fatte a Trump a Singapore). La Casa Bianca sembra cercare tutti i modi per tenere basso il profilo, Trump rivendica empatia col satrapo nordcoreano, ma è evidente che ci sia nervosismo per un risultato fissato e per ora tutt’altro che raggiunto: un accordo storico con uno dei nemici dell’America che permetterebbe a Trump di incoronarsi come dealer non solo tra gli immobiliaristi newyorkesi, ma anche nel più prestigioso palcoscenico dei leader internazionali. Però la strategia della massima pressione che Trump ha sposato in pieno — su cui adesso rilancia anche il Congresso — non sembra funzionare al meglio per il momento. Applicata su tutta una serie di dossier geopolitici, come la guerra commerciale con la Cina, il rovesciamento del regime in Venezuela, il confronto con l’Iran, non sembra portare a un risultato nemmeno con la Corea del Nord. L’obiettivo sarebbe pressare fino a far arrivare Kim a inginocchiarsi e chiedere un accordo come ossigeno vitale, ma finora non ci siamo.

OMBRE CINESI

Nei giorni scorsi sul dossier Nord è pesantemente tornata la Cina. Il presidente Xi Jinping è andato per la prima volta dall’inizio del suo mandato a Pyongyang (dopo quattordici anni dall’ultima visita di stato del Dragone) e ha marcato la presenza cinese con una tempistica importante. Ha giocato di anticipo sul G20, ha giocato di anticipo rispetto al viaggio di Trump a Seul, dove si trova il motore del processo negoziale con il Nord, il presidente Moon Jae-in. Un tentativo, come già altri prima dei summit Trump-Kim, di intestarsi le dinamiche del dossier, con cui Xi potrebbe offrire anche una leva negoziale (sul fronte Washington-Pechino) agli Stati Uniti, aiutando a risolvere lo stallo con Pyongyang. Sarebbe una vittoria a metà per Trump, oppure doppia. Però intanto, in un discorso durante un banchetto di gala, giovedì, Xi ha detto che la Corea del Nord ha “avviato una nuova linea strategica di sviluppo economico e il miglioramento dei mezzi di sussistenza”, e si è impegnato a sostenere la “prosperità comune” di entrambi i Paesi.

 

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