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L’Iran post elezioni sarà ancora più aggressivo. L’analisi di Perteghella (Ispi)

L’esito conclusivo delle elezioni parlamentari con cui oggi gli iraniani rinnoveranno tutti i 290 seggi del Majles è piuttosto scontato. Secondo i conteggi della Reuters, ci sono state 6.850 esclusioni su circa 14mila candidature: il Consiglio dei Guardiani ha tagliato quasi tutti i candidati di area non-conservatrice. L’organismo, composto da sei religiosi e sei giuristi, tutti scelti accontentando la Guida Suprema, il conservatore Ali Khamenei, ha anche il potere di decidere chi si può candidare e chi no. E in questo momento delicatissimo, con in corso un confronto che a tratti è stato molto duro con gli Stati Uniti e gli alleati regionali, il Consiglio ha scelto di premiare i principalisti e bocciare la linea di apertura incarnata dal presidente Hassan Rouhani, considerato un moderato (o forse meglio dire un riformista pragmatico), che aveva intrapreso una linea di contatto con l’Occidente.

“Se la maggioranza sarà principalista, come credo sarà, dovremo abituarci a vedere un’azione ancora più forte e incisiva dell’ala conservatrice contro Rouhani”, commenta con Formiche.net Annalisa Perteghella, responsabile dell’Iran Desk dell’Ispi. “Questo significa che se il governo iraniano dovesse decidere di riaprire qualche colloquio con gli Stati Uniti, magari sfruttando anche il fatto che Donald Trump è nell’anno elettorale e vuole concludere un nuovo accordo, i conservatori lo impediranno, perché di fatto sono quelli che più si sono rafforzati da questa situazione di ostilità e massima pressione”.

La “massima pressione” è la strategia adottata dall’amministrazione Trump contro l’Iran. Dal maggio 2018, quando Washington ha deciso in forma unilaterale di abbandonare il Jcpoa – l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 – è stata re-introdotta tutta la panoplia sanzionatoria contro Teheran. Comprese le misure secondarie, ossia quella che permettono agli Usa di agire in forma extraterritoriale e che sono alla base dei problemi di tenuta dell’accordo che stanno vivendo i co-firmatari europei. Da lì c’è stato un crescendo di acredine retorica, arrivato fino a diventare azioni a plausible deniability lungo le rotte del petrolio nel Golfo Persico, per sfociare poi in una serie di colpi proibiti all’interno della regione, con il massimo picco registrato nel raid americano con cui è stato eliminato il potentissimo generale dei Pasdaran Qassem Soleimani, e la successiva risposta iraniana – un attacco missilistico contro due basi irachene che ospitano anche personale americano, lasciando svariati feriti.

“Rouhani diventa di fatto un’anatra zoppa – aggiunge Perteghella – e andranno quindi archiviate le riforme e le aperture previste dal suo programma e rimaste irrealizzate da sempre. E prepariamoci alle presidenziali del prossimo anno, in cui potremmo vedere qualcosa di simile a quanto successo nel 2005, quando con un’azione di veto del Consiglio dei Guardiani l’anno precedente erano stati escluse dalla possibilità di elezioni in parlamento tutte le posizioni riformiste, e poi è stato eletto Ahmadinejad”. Mahmud Ahmadinejad è stato il sesto presidente iraniano, un conservatore molto aggressivo.

Tra le pendenze più critiche appunto il Jcpoa, l’accordo nucleare con cui Rouhani ha provato a congelare le ambizioni nucleari di Ahmadinejad attraverso un’intesa multilaterale che avrebbe dovuto sbloccare le sanzioni internazionali, permettere nuove aperture commerciali ed economico-finanziarie, e in definitiva spingere la crescita iraniana. Difficile che ci sarà un’uscita formale dell’Iran, che probabilmente non ne avrebbe convenienze, ma nei fatti l’accordo resterà una scatola vuota senza sistemazioni e senza la possibilità di creare nuovi terreni di colloquio.

Questa sorta di isolamento in cui i conservatori iraniani potrebbero portare il Paese, che effetti avrà a livello regionale? “Certamente possiamo immaginare che continuerà il sostegno alle milizie (i gruppi armati che i Pasdaran gestiscono in forme più o meno dirette all’intero di altri paesi del Medio Oriente come vettore di influenza, ndr). Assisteremo a un ricompattarsi del regime su posizioni oltranziste, basato sul fatto che il potere iraniano si sente aggredito e in dovere di difendere la Repubblica islamica. Dunque tutto passerà sotto una postura esterna molto più aggressiva”, spiega l’analista italiana.

“Nei think tank si fa spesso l’esercizio del ‘what if’, ossia cosa sarebbe successo se: ecco se Trump non fosse uscito dall’accordo sul nucleare, forse adesso staremmo analizzando altri aspetti. Gli Stati Uniti hanno buone responsabilità sulla situazione, ma questo di certo non vuole dire che l’Iran non ha avuto difetti. Anzi, quello che stiamo vedendo è che in Iran si sono saldati insieme i peggiori difetti interni, con i conservatori che hanno usato tutto come una scusa per ricrescere e per attaccare e rubare spazi alla fazione politica che invece pensava ad aperture del sistema e riavvii dei negoziati con l’Occidente”.

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