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Iron Dome nel Golfo e Israele nel CentCom. Cosa cambia nel Medio Oriente

Israele potrebbe diventare ufficialmente l’alleato regionale preferenziale americano con l’inserimento nel CentCom e con la diffusione nelle basi Usa della regione dell’Iron Dome. Un’autorità delegata che Washington userà per gestire l’area a distanza? Sei spunti di riflessione

Secondo funzionari della sicurezza che hanno parlato con Haaretz, gli Stati Uniti dovrebbero presto iniziare a schierare batterie di intercettori missilistici Iron Dome, uno dei gioielli dell’industria manifatturiera di armi israeliane, nelle proprie basi nel Golfo. Un’ulteriore evoluzione che avviene con sullo sfondo gli Accordi di Abramo tra Israele e due Stati del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, e due grandi accordi sulle armi che gli Usa hanno chiuso con gli Emirati Arabi Uniti e con l’Arabia Saudita.

Inoltre, sul contesto dietro al nuovo schieramento, c’è da aggiungere l’inserimento di Israele nella AoR, area di responsabilità, del CentCom. Aspetto he è ben più di una formalità tecnica o di un’ultima concessione dell’amministrazione Trump allo stato ebraico, ma è un passaggio del rimodellamento in corso nel Medio Oriente allargato (ossia nella regione MENA, includente anche il bacino del Mediterraneo). Quest’ultimo fattore merita un approfondimento.

Il CentCom, o Central Command, è una delle strutture di comando con cui il Pentagono suddivide il mondo per fasce di competenza affidando a queste l’intera panoplia (aria, terra, acqua). L’area di responsabilità del CentCom va dall’Egitto all’Afghanistan e basta guardare un mappamondo per comprendere come al suo interno siano contenute alcune delle zone più turbolente del pianeta, e dunque capirne importanza e attività.

Finora Israele ne era escluso, compreso nel Comando Europa sebbene direttamente più interessato alle dinamiche mediorientali. Era una secca volontà dei paesi arabi, alleati che Washington ha scelto di accontentare garantendo comunque a Israele una sorta di privilegio primus inter pares, e nelle relazioni col mondo ebraico e negli scambi tecnologici soprattutto del settore militare.

Ma il rimodellamento mediorientale è in atto. Gli Accordi di Abramo — spinti da Donald Trump e firmati dagli adesori anche pensando a Joe Biden — hanno riaperto le relazioni tra Tel Aviv e il blocco arabo del Golfo (e non solo) e hanno creato le situazioni ideali per questo tutt’altro che formale cambiamento nel CentCom; che tra l’altro ha l’hub in Qatar, recentemente riconciliato col resto della regione. Andando oltre il contesto, l’inclusione di Israele ha alcuni significati dal valore tattico e strategico.

Primo, crea un’autorità delegata americana nella regione. Autorità affidabile, perché Israele non ha capacità (anche demografica) per diventare potenza egemonica e non ne ha memo ambizione. Veicolare e preservare i propri interessi è l’obiettivo dello stato ebraico, del tutto concepibile per gli Usa — tanto più se fatto in equilibrio con gli altri attori regionali come Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

Secondo, il processo rientra nel desiderio statunitense di disimpegno, tema rappresentato simbolicamente nell’immagine dei B-52 che partono dalle basi statunitensi, compiono esercitazioni per missioni non-stop sopra al Medio Oriente, e poi rientrano. Dimostrazione che la capacità di deterrenza e azione (in questo caso con l’indice puntato sull’Iran) non è minore se cala la presenza fisico-geografica. Ma in questo, serve un amministratore e Israele sembra la scelta adatta.

Terzo, la delega alla gestione di questioni acide come la penetrazione velenosa dell’Iran attraverso partiti/milizia proxy (vedere nei giorni scorsi ciò che è accaduto per l’ennesima volta in Siria) accontenta sia Washington che Tel Aviv. I primi creano un buffer per negoziare con Teheran (come desidera Biden) pur tenendo una posizione severa, affidata negli atti agli altri. I secondi proteggono i propri interessi, e ne escono in parte rassicurati anche a proposito di eventuali (imminenti? Già avviati?) contatti Usa/Iran.

Quarto, nella rassicurazione rientra anche la possibilità di approfondire le relazioni con i partner arabi. Il ruolo conferito a Israele potrebbe in effetti permettere agli Stati Unti di abbandonare la prelazione concessa sulle tecnologie militari allo stato ebraico – un vantaggio strategico equilibrato con un altro – e agevolare la vendita dei sistemi più sofisticati agli altri (vedere in questo caso la questione degli F35 agli Emirati, grande accordo instradato tra Washington e Abu Dhabi a poche ore dalla fine dell’amministrazione Trump). Il risultato sarà doppio, gli americani incassano importanti contratti commerciali, e contemporaneamente danno spessore al blocco delegato regionale.

Quinto, lo schieramento dell’Iron Dome conferma quel ruolo di vantaggio che Israele mantiene riguardo a tutti gli altri partner americani regionali. La Israele Rafael Advanced Defense Systems produttrice ottiene un buon contratto, ma soprattutto dà a Tel Aviv – attraverso la diplomazia dell’industria militare – la possibilità di essere nelle basi americane nel Golfo. Una presenza fisica che ha molto più che valore tecnico, bensì peso politico.

Sesto, tutto non sarà gratis però. Israele infatti non otterrà carta bianca, non avrà mani libere. Si veda già il blocco imposto al governo amico di Benjamin Netanyahu dall’amministrazione Trump in occasione delle nuove annessioni in Cisgiordania, considerate da Washington un elemento troppo destabilizzante tanto da spingere l’alleato a mettere da parte alcune priorità proprie per facilitare questa moderna Pax Americana.

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