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Cosa racconta quell’America is back del presidente Biden

L'”America is back” pronunciato da Joe Biden durante il suo primo discorso sulla politica estera serve a cancellare l’“America first” con cui Donald Trump aveva annunciato al mondo il suo desiderio di ritirarsi all’interno. La forma delle azioni politiche sarà abbinata alla sostanza. Russia e Cina in testa alle preoccupazioni, le alleanze e il multilateralismo, il ritorno ai processi classici della diplomazia

Il primo elemento è nel linguaggio, nella dialettica e nella retorica, nelle scelte lessicali che nascondono significati, simboli e messaggi: innegabile che quell’“America is back” pronunciato da Joe Biden durante il suo primo discorso sulla politica estera serva a cancellare l’“America first” con cui Donald Trump aveva annunciato al mondo il suo desiderio di ritirarsi all’interno.

L’enfasi sulla continuità di azione tra democrazie — col desiderio, già chiaro, di provare a istituzionalizzarne un’Alleanza delle Democrazie — e la spinta sul recuperare terreno con gli alleati, per primo quelli transatlantici. Tasselli che confermano un pensiero, così come nella sintesi è confermata la linea (già anticipata dai suoi uomini) su Cina e Russia.

Possono esserci spazi di dialogo, ma per Biden i primi sono “competitor” sistemici contro cui costruire un quadro multilaterale di contenimento; i secondi sono rivali nei confronti dei quali serve deterrenza, senza esterno coinvolgimento. Pechino come problema di lungo termine, Mosca di breve.

“Ho chiarito al presidente [Vladimir] Putin, in un modo molto diverso dal mio predecessore (Biden si riferisce a una recente telefonata con l’omologo russo, ndr), che i giorni in cui gli Stati Uniti voltano lo sguardo davanti alle azioni aggressive della Russia [..] sono finite”, ha detto Biden marcando una distanza netta tra lui e Trump (un po’ affascinato da Putin e dal suo modello di potere/governo, un po’ disinteressato dal criticarlo).

Una presa di posizione anche a uso interno, per mandare un messaggio ai Democratici statunitensi, che tra elettorato e Congresso non amano il Cremlino e le sue violazioni di diritti e libertà. Senza escludere punti di contatto, comunque, come il rinnovo di un importante trattato sul nucleare. Su questo, sulle necessità politiche, ruota la scelta della semantica con la Cina: poiché le parole contano, Pechino per Biden è “most serious competitor”, e competitor ha una sfumatura minore di un rivale o una minaccia. Anche qui la necessità sta nel marcare un segno, di forma (forse più che di sostanza) dal suo predecessore. Serve a ricordare a chi guarda che il problema Cina esiste, ma verrà trattato e affrontato con termini e modi più attenti (non meno severi, però).

Biden ha detto che la sua amministrazione “si assumerà direttamente le sfide poste [alla] nostra prosperità, sicurezza e valori democratici dal nostro concorrente più serio: la Cina”. “Affronteremo gli abusi economici della Cina, contrasteremo le sue azioni aggressive e coercizioni, respingeremo l’attacco della Cina ai diritti umani, alla proprietà intellettuale e alla governance globale”, ha incalzato.

“Competeremo da una posizione di forza, ricostruendo meglio a casa, lavorando con i nostri alleati e partner, rinnovando il nostro ruolo nelle istituzioni internazionali e rivendicando la nostra credibilità e autorità morale, molto delle quali è andato perso”, ha detto Biden delineando un contrasto con l’idea (ideologia?) America first nell’ingaggio a certe questioni internazionali.

Attenzione però, perché c’è un passaggio del discorso in cui appare chiaro che le divergenze sono più di forma che di sostanza: diverso il posto dell’America nel mondo, ma non lo scopo (ossia prima gli interessi americani). “Non c’è più una linea chiara tra politica estera e politica interna”, ha detto Biden, perché “ogni azione che intraprendiamo nella nostra condotta all’estero, la dobbiamo intraprendere pensando alle famiglie lavoratrici americane”. Impossibile non pensare che questa valutazione profonda non finirà per influenzare le sue scelte e le sue politiche internazionali.

Se Biden sceglie il dipartimento di Stato come prima agenzia federale da visitare e da cui lanciare un discorso programmatico è perché agli affari internazionali intende dare massimo peso, inserendoli nelle complesse questioni domestiche che si trova ad affrontare. Quando dice che “l’America è tornata” sottolinea infatti anche un ritorno da un punto di vista “diplomatic”, come lo chiama lui, che è la sintesi di forma e sostanza. Altro distacco con il predecessore, che — come ci fa notare il direttore di programma di un think tank di Washington — significa la fine della gestione di faccende delicate di politica estera da “famigliari o affaristi amici del presidente”.

Il riferimento al Medio Oriente è immediato, dove la gran parte dei dossier — da quello israelo-palestinese ai rapporti con gli alleati sauditi e emiratini, alla gestione del processo che ha portato agli Accordi di Abramo – è stata in mano a Jared Kushner, marito della figlia prediletta di Trump totalmente privo di esperienza e conoscenze nel campo della politica estera, che però portava in dote oltre che il legame di famiglia anche la conoscenza personale con gli eredi al trono di Abu Dhabi e Riad.

Più che l’America, sotto questo punto di vista tonerà la diplomazia. Quella fatta di passaggi e gerarchie, di processi misurati e pensati, di protocolli, analisi, dichiarazioni, mosse e contromosse, gestite da canali ufficiali. Si inizia con l’annuncio, atteso e già dichiarato nelle scorse settimane, di ritirare ogni genere di sostegno alla campagna militare saudita in Yemen – dopo aver messo sotto revisione la vendita di armi ai regni del Golfo. Si tratta, in questo senso, di un messaggio più nella forma che nella sostanza delle alleanze.

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