Skip to main content

Cosa può fare l’intelligence Usa a Kabul. Parla il prof. Teti

I passi falsi dell’amministrazione Biden, le sfide per la Cia e il futuro dell’Afghanistan sotto i Talebani. Intervista a tutto campo con il professor Antonio Teti

Non c’è solo la politica americana sul banco degli imputati per il fallimento strategico della conquista talebana in Afghanistan. La debacle attraversa trasversalmente l’intelligence Usa, fra previsioni sfumate ed errori fatali, spiega in questa lunga intervista Antonio Teti, responsabile del settore Sistemi informativi e Innovazione tecnologica dell’Università G. D’Annunzio di Chieti Pescara, esperto di Intelligence e Cyber Intelligence.

Professore, è stato un fallimento anche per l’intelligence Usa?

Le prime avvisaglie da parte dell’Intelligence Community statunitense sulla precaria stabilità del governo di Kabul sono state evidenziate sin dal febbraio del 2020, mese in cui è stato siglato l’accordo di pace a Doha dall’amministrazione Trump e dal mullah Abdul Ghani Baradar. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, il ritiro completo dei 12.000 militati americani presenti sul territorio afghano entro il 1° maggio 2021. In cambio, i Talebani si sarebbero impegnati ad interrompere ogni rapporto con gruppi terroristi, tra cui Al-Qaeda. In quella occasione, il portavoce degli “studenti coranici” aveva comunicato che ogni combattente doveva interrompere ogni azione militare. A metà giugno del 2021, l’Intelligence Community statunitense avvertì Washington che il governo di Kabul sarebbe potuto crollare nell’arco di sei mesi.

Una previsione ottimista.

Era una sostanziale rivisitazione delle precedenti stime, piuttosto ottimistiche, che invece prevedevano un intervallo temporale di circa un anno. Ciò che probabilmente aveva allertato l’intelligence statunitense sull’errata valutazione iniziale era da ricondurre agli scontri consumatisi nelle settimane precedenti nella zona nord dell’Afghanistan. Le forze di sicurezza afghane tentarono una timida reazione contro gli attacchi dei Talebani nei pressi di Konduz, dopo che questi avevano già occupato l’area di confine con il Tagikistan e la città principale della parte settentrionale del Paese, Mazar-e-Sharif. In quegli scontri 100 soldati afghani furono uccisi o catturati, ma altri 130 si arresero, consegnandosi alle milizie talebane spontaneamente. Era un preavvertimento della consistenza del livello di resistenza delle forze di sicurezza afghane.

E infatti la resistenza del Nord è durata poco, pochissimo.

A mio modesto parere, le agenzie di intelligence statunitensi hanno commesso un unico errore, ovvero quello della “valutazione temporale” del crollo delle forze armate afghane. Ritengo, tuttavia, che fossero perfettamente consapevoli che l’esercito afghano non avrebbe retto a lungo.

Perché?

Dopo quasi due decenni di presenza delle forze armate statunitensi, il governo centrale dell’Afghanistan non è riuscito a stabilire una vera legittimità popolare nelle aree remote, il che ha indebolito la nozione di cittadinanza tra gli abitanti, insieme alla loro fiducia nel governo di Kabul.

Quali sono stati gli errori più gravi dell’intelligence americana?

Senza alcun dubbio l’attuazione di una corretta e strutturata pianificazione del ritiro delle truppe. Un errore incredibile, oserei dire, per un esercito come quello statunitense che vede nella logistica e nella programmazione gli elementi basilari su cui basare l’efficienza delle proprie forze armate. Il parallelismo con la fuga delle truppe statunitensi da Saigon nel 1975 era inevitabile.

C’erano davvero avvisaglie di un simile collasso?

Da quanto è emerso, l’Intelligence Community e i leader militari statunitensi avevano avvertito Biden ripetutamente, sia pubblicamente che privatamente, che i Talebani avrebbero potuto riconquistare rapidamente il Paese.

Perché gli allarmi sono stati ignorati?

Chi avrebbe dovuto prestare la dovuta attenzione alle indicazioni provenienti dalle agenzie di intelligence, forse ha preferito guardare altrove. Sembra che Biden abbia preferito privilegiare la decisione politica di sganciarsi rapidamente da quella che era ormai conosciuta negli Stati Uniti come la forever war, un provvedimento che avrebbe prodotto un significativo ed importante apprezzamento da parte dell’elettorato statunitense. Una decisione, quindi, maturata sulla base dei sondaggi politici e non certamente sulle base indicazioni pervenute dai vertici militari e dall’Intelligence Community.

Come avrebbe potuto l’intelligence americana immaginare un così grave cedimento delle forze di sicurezza afghane?

Sulla base di alcune fonti, sembra che sin dallo scorso anno i Talebani avevano programmato una vasta e meticolosa campagna di comunicazione psicologica “terrorizzante” in Afghanistan, in concomitanza con il calendario ufficiale previsto per il ritiro delle truppe statunitensi. Numerosi sono stati gli omicidi mirati e gli episodi di violenza che hanno accompagnato la campagna di propaganda e condizionamento psicologico su tutto il territorio afghano, perfezionata dall’isolamento, sul piano della comunicazione, dei capoluoghi di provincia. Probabilmente gli intelligence officer non sono riusciti a percepire esattamente la portata e l’impatto di queste operazioni, che potremmo definire come psyops, e di conseguenza quale fosse la reale situation on the pitch.

Perché?

Le cause potrebbero essere riconducibili anche alla mancanza di informatori territoriali nella parte Nord del Paese, senza escludere l’ipotesi che gli stessi abbiano abbandonato il ruolo di informatori temendo per la loro vita. Secondo alcune fonti, quando i territori e le città sono iniziati a cadere nelle mani dei Talebani, i funzionari dell’intelligence statunitense non avendo percepito esattamente il disastro che si stava delineando, hanno preferito assecondare il cosiddetto group thinking, ovvero l’opinione dominante che escludeva l’ipotesi dell’imminenza del crollo dell’intero Paese. Probabilmente ritenevano che i Talebani avrebbero combattuto secondo uno schema di linearità, che prevedeva la conquista di una città dietro l’altra e non certo la conquista della capitale prima di aver espugnato il resto del Paese.

Quali sono le priorità ora per l’intelligence Usa in Afghanistan?

Senza alcun dubbio la priorità della Cia in Afghanistan è quella di evitare il pericolo che Al-Qaeda o l’ISIS possano ricostruire delle cellule terroristiche e delle basi di addestramento sul territorio afghano. Certamente le due organizzazioni terroristiche non rappresentano minimamente il livello di minaccia di vent’anni fa, e anche le mutazioni sociopolitiche che si sono susseguite nel corso degli anni offrono uno scenario sostanzialmente diverso da quell’epoca.

C’è il rischio che si ricostituiscano cellule terroristiche?

È un pericolo reale. La perdita delle basi militari statunitensi in Afghanistan rappresenta un serio problema per l’intelligence, soprattutto per le attività di information gathering. Ora si tratta di comprendere come deciderà di gestire il Paese e quali sono i reali obiettivi che intende perseguire l’artefice principale della vittoria militare dei Talebani, ovvero Abdul Ghani Baradar, l’uomo che ha condotto l’Afghanistan alla creazione dell’Emirato islamico.

In che modo può continuare l’attività di contrasto al terrorismo nella regione di fronte alla rinascita di un santuario del terrorismo?

È indispensabile una precisazione: la Cia e l’esercito statunitense dipendono l’uno dall’altro in zona di guerra. Sono i militari americani a fornire protezione agli agenti della Cia per consentire loro di operare nel migliore dei modi. Per contro, gli operatori di intelligence forniscono informazioni utili ai vertici militari per la conduzione delle loro missioni. Per quanto è dato sapere, sembra che rimarranno solo poche centinaia di soldati a Kabul per proteggere l’ambasciata americana. Di conseguenza l’intelligence americana sarà molto più limitata nella conduzione delle attività, soprattutto nelle aree esterne alla città, ovvero quelle più pericolose.

Ci potrebbero essere squadre di agenti infiltrati.

Secondo alcune fonti, gli intelligence officer starebbero già esplorando la possibilità di organizzare dei team di agenti, basati in alcuni territori circostanti, capaci di infiltrarsi in Afghanistan per condurre delle missioni di antiterrorismo. Ovviamente i livelli di efficacia e sicurezza delle missioni diminuiscono notevolmente se le stesse se condotte dall’esterno del Paese di interesse. Mantenere una capacità, in ambito di antiterrorismo, “over the orizon” è molto più difficile senza la presenza di una base vicina su cui contare, soprattutto per quanto riguarda l’esfiltrazione degli agenti.

Da dove partirà la ricerca delle basi?

Paesi come il Pakistan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Kazakistan potrebbero accettare di ospitare degli operatori statunitensi, ma sono opzioni da valutare attentamente. Altra possibilità è quella dei Paesi del Golfo considerati amici, come gli Emirati Arabi Uniti, dove gli Stati Uniti mantengono già una presenza militare. A tutto ciò si aggiungono le pressioni sulla Cia affinché la stessa riduca gli sforzi contro il terrorismo internazionale e concentri la sua attenzione alle minacce informatiche e alle attività di spionaggio condotte dalla Russia e la Cina. In conclusione, Burns dovrà risolvere non pochi problemi.

Ritiene probabile che i Talebani abbiano avuto un supporto esterno di intelligence?

Non dobbiamo dimenticare il ruolo strategico svolto dal Pakistan in quel particolare scacchiere. In particolare, quello svolto dall’Inter-Services Intelligence (Isi), la più importante e potente agenzia di intelligence del Pakistan. Il governo di Islamabad ha collaborato con la Cia per anni, fornendo anche una base per la conduzione di missioni condotte da droni americani nel territorio afghano. Nel 2011, sembra che il Pakistan abbia imposto agli Stati Uniti di abbandonare la base in funzione della conduzione di alcuni attacchi condotti dai droni in Afghanistan che avrebbero prodotto l’uccisione di alcuni civili. Tali eventi avrebbero messo in grande difficoltà il governo pakistano con il Paese confinante.

Un doppio gioco.

Alleato ufficiale degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo, è stato allo stesso tempo accusato per decenni di fornire segretamente, sempre per mezzo dell’Isi, supporto ai Talebani per resistere alla campagna militare condotta dalle forze occidentali. Una presunta ambiguità che troverebbe riscontro nella notizia che il ritorno al potere delle milizie islamiche oltre confine sia stato salutato da Islamabad come un grande evento.

Come si possono recuperare gli informatori sul campo che hanno aiutato i Servizi occidentali in questi anni?

Questo rappresenta, per certi versi, il dramma maggiore. Per quasi vent’anni, migliaia di afghani hanno rischiato la vita per lavorare con le truppe statunitensi in quella che è diventata la guerra più lunga d’America. A giugno scorso, ben 18.000 afghani, con al seguito almeno 50.000 familiari, avevano richiesto un visto speciale di immigrazione per gli Stati Uniti. “L’amministrazione Biden non dovrebbe aver bisogno di un elenco di richiedenti il visto speciale afghano”, ha affermato alcuni giorni fa Adam Bates, il consulente politico per l’International Refugee Assistance Project. “Il governo sa già chi sono e dovrebbero essere immediatamente evacuati e messi tutti in salvo”.

Le immagini e le notizie di questi giorni dicono altro.

Purtroppo, abbiamo visto tutti sui media le scene dei disperati arrembaggi di centinaia di afghani agli aerei militari e di linea all’aeroporto di Kabul. Abbandonare al loro tragico destino migliaia di persone che hanno collaborato per decenni con i Paesi occidentali, riponendo su di loro una totale fiducia, è semplicemente inaccettabile. Anche questa era un’operazione che andava programmata e organizzata con netto anticipo.

Exit mobile version