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Medio Oriente, le preoccupazioni saudite secondo Dentice

I sauditi sono in difficoltà perché non riescono a muoversi rapidamente e pragmaticamente su alcuni temi e dossier regionali (dove invece gli emiratini sono più efficaci). Conversazione con Giuseppe Dentice, Head del Mena Desk del Cesi

“L’Arabia Saudita è in difficoltà e vive questa condizione con apprensione, perché teme di essere percepita come meno influente nelle dinamiche regionali. Vede gli Stati Uniti distanti; è impantanata in Yemen, il suo cortile di casa; cerca contatto con l’Iran, ma non sta riuscendo a trovare un giusto equilibrio; soffre l’intraprendenza degli Emirati Arabi Uniti”, spiega a Formiche.net Giuseppe Dentice, Head del Mena Desk del CeSI.

Due immagini recenti che fotografano la situazione: la prima è l’incontro tra il principe ereditario emiratino, Mohammed bin Zayed, e il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan; la seconda l’uscita sulla stampa del tentativo di intralciare un accordo a tre tra Israele, Giordania ed Emirati. Due vicende che raccontano come l’Arabia Saudita sia in parte esclusa dalle dinamiche regionali. Riad da tempo porta avanti contatti con la Turchia per superare almeno formalmente la faglia intra-sunnita e distendere i rapporti attorno a un’ambizione di dominazione regionale: ma a differenza dell’emiratino, l’erede Saudita Mahammed bin Salman non incontra Erdogan. Così come i sauditi non sono parte degli Accordi di Abramo, alla base del meccanismo che ha portato all’intesa Gerusalemme, Amman e Abu Dhabi.

“Che in entrambe queste vicende rappresentative siano gli emiratini a essere protagonisti è abbastanza paradigmatico: sebbene giochino sempre (o quasi) in accordo con Riad, e non vogliano passare per subordinati a Israele, gli Eua fanno i propri interessi e riescono a essere adesso più che mai efficaci. Sono più rapidi a muoversi e hanno la possibilità di essere pragmatici, forse anche troppo”, aggiunge Dentice.

Per l’analista del CeSI, quello che sarebbe successo con l’accordo a tre è simbolico: Riad ha provato a intralciare l’intesa che vedrà gli Emirati costruire in Giordania un impianto solare con il quale verrà fornita elettricità a Israele, e in cambio Israele costruirà un impianto di desalinizzazione per fornire acqua alla Giordania. Secondo le informazioni uscite sui media tramite fonti dei tre Paesi coinvolti (e anche statunitensi, presenti con l’inviato per il Clima, John Kerry, alla molto politicizzata cerimonia di firma), Riad avrebbe proposto di escludere Israele e sostituirvisi.

Sarebbe stata un’alternativa? “Tecnicamente sì, ma — risponde l’analista del CeSI — è il flusso della regione che in questo momento va da un’altra parte. Gli Accordi di Abramo sono un motore per le dinamiche geopolitiche e geoeconomiche dell’area, e poi tali intese sono (almeno formalmente) blindate dagli Stati Uniti. Difficile non scegliere in quale lato del tavolo stare: in fin dei conti, perché Emirati e Giordania avrebbero dovuto preferire Riad quando l’intesa rappresentava una messa in operatività del grande progetto per la distensione regionale voluto da Washington? Il tentativo dei sauditi racconta come questi siano ansiosi di non perdere punti a livello di immagine, di vedersi sostituiti alla guida”. Per una potenza, l’immagine vale tanto quanto il contenuto.

“A lungo andare queste dinamiche che si sono innescate nella regione rischiano di tagliare troppo fuori Riad, con conseguenze piuttosto negative: è una debolezza oggettivamente — continua Dentice — perché di fatto ci sono cose su cui non possono arrivarci”. In che senso? “Prendiamo per esempio gli Accordi di Abramo: la custodia dei luoghi sacri e il valore che questo ha nell’Islam non permette un’azione rapida di apertura nei confronti di Israele, perché la religione ha un ruolo centrale nel mondo saudita e nell’immagine che rappresenta, e in Arabia Saudita c’è un peso storico mosso dalle élite che sono politiche e morali”.

La continuazione di uno status quo rallentato è ciò che emerge adesso dal regno in contrasto con la grande visione futuristica del principe ereditario. L’attivismo di bin Salman è stato negli ultimi due anni ridimensionato e suo padre, Re Salman, e il  suo circolo del potere più classico si sono di nuovo intestati la guida del Paese — sebbene alcune questioni continuino a essere in capo all’erede. Da tempo a Riad è in corso un braccio di ferro attorno al potere, con le forze giovani entusiaste di bin Salman (e per le sue promesse di aperture ed evoluzioni) e la componente più anziana delle élite che tifa per frenare. Ora è quest’ultima a guidare, intenzionata a far pagare all’erede il peso di errori commessi in una fase in cui fungeva da factotum (quasi esautorando il potere del padre).

Il ri-posizionamento su una linea classica riguarda anche i rapporti con Washington: relazioni adesso tenute di nuovo dai reciproci apparati dei due Paesi e non più mosse dal rapporto diretto tra membri della famiglia del presidente (l’ex genero-in-chief Jared Kushner) come succedeva con l’amministrazione Trump. “E vale la pena ricordare che Joe Biden non ha ancora chiamato l’erede al trono bin Salman, ma parla solo con il re: anche questo è sintomatico di un cambiamento di umore nelle relazioni”, aggiunge Dentice.

“Potrebbe essere necessario — continua — allinearsi a questo nuovo flusso, e c’è chi riesce a farlo più facilmente come gli Emirati e chi fatica come i sauditi. Riad vorrebbe imporre una linea unilaterale, ma di fatto non ci stanno riuscendo da un po’ e tanto meno adesso. Fondamentalmente come già il Qatar, gli Emirati non condividono alcune visioni saudite e per questo si muovono per conto proprio sfruttando il momento di difficoltà del regno degli Al Saud. Su tutto c’è una lettura estremamente pragmatica: la competizione regionale con Iran e Turchia per esempio rischiava di essere così alta da portare a una conflittualità su larga scala tutti contro tutti, dunque è meglio rallentare. La situazione va sotto quella che gli analisti definiscono ‘coesistenza competitiva’. Le parti rimangono rivali ma si riconoscono, non vogliono andare allo scontro aperto, il livello di competizione ma permane controllato per evitare escalation pericolose”. È su questi equilibri che si muove il Medio Oriente adesso (anche per volere di Biden).

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