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Libia e Sahel, l’asse Roma-Parigi reggerà? Parla Roy

Intervista al sociologo e islamologo francese: in Libia le elezioni sono una farsa, niente di serio. Italia e Francia ai margini di una guerra per procura, ma possono ancora dire la loro. Sahel? Una jihad locale, inutile la guerra di Macron. Anche i russi rischiano di rimanere nel pantano

“Niente di serio”. Chi conosce la Libia commenta così, con un sorriso, l’ennesimo appuntamento elettorale dettato all’estero e sfumato al fischiare dei proiettili. Olivier Roy, islamologo e noto sociologo francese, è convinto che lo stallo armato a pochi chilometri dalle coste italiane è destinato a durare. Vale anche per il Sahel, la regione a Sud che vede i francesi far le valigie dal Mali proprio mentre i mercenari russi della Wagner bussano alla porta.

Roy, le elezioni libiche sono sempre state un’illusione?

Inutile girarci intorno: la Libia è il campo di battaglia di una guerra per procura combattuta da potenze straniere. Egiziani, emiratini, russi, turchi hanno interessi diversi e divergenti. Ne consegue che nessuno vuole davvero un accordo politico per un governo di transizione o coalizione. 

Come se ne esce?

La verità è che le elezioni libiche si possono riassumere così: “niente di serio”. Nessuno vuole vincere, tutti vogliono farle saltare. Provare a spiegare lo stallo libico in chiave ideologica è inutile. Manca infatti uno scontro tra religione e secolarismo. È uno scontro locale, tribale, tra Tripoli, Misurata e gli attori esterni.

Ue non pervenuta?

L’Ue, in teoria, avrebbe leve da usare, se solo avesse una percezione unica e chiara di quel che accade in Libia. Solo due Stati, Italia e Francia, hanno voce in capitolo. Ma vanno in direzioni diverse, se non opposte, e hanno interessi economici non sempre conciliabili.

Eppure hanno appena firmato il Trattato del Quirinale.

Qualche progresso c’è stato. Hanno capito che la stabilizzazione è nell’interesse di entrambe. Anche se incomprensioni e diffidenze sono rimaste.

Poi c’è il Sahel che ribolle. Dopo otto anni i francesi chiudono l’operazione Barkhane e abbandonano il Mali.

È una decisione che avrà conseguenze importanti. La Francia è andata in guerra nel 2013 per combattere il terrorismo e la jihad globale. Otto anni dopo ha capito che le cose sono più complesse di così.

Perché?

Non esiste nel Sahel una jihad globale. In Mali, in Niger ci sono jihadisti locali, gruppi armati diversi e spesso in contrasto. Tutti rivendicano di combattere la guerra santa, ma in realtà rappresentano tribù o categorie economiche, come i nomadi o gli agricoltori. Un mix aggravato dal riscaldamento globale e dalla siccità, che aumentano la rabbia sociale e trasformano la jihad nel linguaggio della rivolta. Le faccio un esempio.

Prego.

Prendiamo una figura chiave del terrorismo della regione, Iyad ag Ghali. Nel 2017 ha fondato Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin, l’Al-Qaeda locale. Ma in origine, prima di diventare un nazionalista e poi un leader jihadista, era un Tuareg, un nomade del deserto. Non un ideologo.

Insomma, una guerra locale che tale rimane.

Esatto. Prendono contatti con Al Qaeda o quel che resta di Daesh. Ma, a differenza dei siriani, in Niger o Mali non possono contare su foreign fighters dal Medio Oriente. Non è un caso se finora non ci sono stati attacchi terroristici in Francia in nome di questi Paesi. L’intelligence francese se ne è resa conto, di qui la bandiera ammainata a Timbuktù.

Che apre un’autostrada ai mercenari russi della Wagner, sanzionati da Ue e Usa.

Il passo indietro era necessario, ora i governi locali dovranno prendersi le loro responsabilità. La Wagner non darà vita a un cambio di proiezione politica nel Paese, si limiterà a fornire arsenale militare. I russi non hanno i mezzi per iniziare una nuova guerra per procura. Lo hanno fatto in Siria, che è molto più vicina e molto più importante per il Cremlino.

L’Italia può ancora giocare un ruolo in Sahel?

Dove non è riuscita la Francia, non riuscirà nessun altro Paese europeo. Si troverebbe costretta a ritirare le sue truppe come hanno fatto i francesi. Ma in Libia l’asse Roma-Parigi pesa, ha influenza. Lì possono ancora dire la loro.

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