Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche

L’inflazione non sempre è nemica della crescita

In Europa l’inflazione è decisamente più bassa che negli Usa. E lo è perché si percepiscono come inferiori i vantaggi di queste manovre in deficit. Si dirà, è giusto, noi non abbiamo avuto Trump. Falso, noi abbiamo ancora la minaccia sovranista e l’unico modo per cancellarla è investire ancora in deficit. Il commento di Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata

L’inflazione, quanto crescono i prezzi in un determinato periodo in un determinato Paese, è oggetto di scelta da parte di chi ha il potere di influenzarne in maniera sostanziale l’andamento. Anche quando i prezzi salgono a causa di fattori esterni e globali (come attualmente sta avvenendo a causa di vari fattori come uscita dalla pandemia, rincaro energia, strozzature delle catene mondiali di fornitura), e superano certe soglie tradizionalmente gradite o predeterminate (come il 2% nell’area dell’euro), le autorità monetarie (come la Bce) possono generalmente mettere in moto azioni per ricondurli a quei valori.

In realtà, gli stessi governi e i partiti possono giocare un ruolo cruciale nel determinare il livello dell’inflazione, anche in un mondo come il nostro dove siamo ormai abituati a ritenere che le banche centrali siano indipendenti e possano essere immuni da pressioni politiche esterne. Non è così: i banchieri centrali ascoltano i governi e la politica, anche se fanno finta di non farlo, altrimenti farebbero perdere alla loro istituzione la loro ragione di esistere, al di là di rischiare personalmente il posto.

E allora la domanda-chiave è: qual è il livello ottimale di inflazione cui dovremmo aspirare, particolarmente in un momento così unico e delicato come l’attuale, dominato dal Covid-19? Un economista per rispondere guarderebbe ai costi e ai benefici di un certo livello di inflazione, per individuare infine quello che massimizza i guadagni netti per la società.

I costi dell’inflazione sono noti. Furono ripercorsi in maniera magistrale dal premio Nobel Franco Modigliani e dal collega Stanley Fischer in un loro celeberrimo lavoro del 1978: la logica non è cambiata da allora. Di fatto, l’inflazione fa tanto più male quanto più è alta o imprevedibile (e tanto più è alta tanto più imprevedibile diviene) e può avere effetti particolarmente dirompenti, in senso sia positivo sia negativo, quando è inattesa, sempre che gli operatori non si siano protetti da queste variazioni inattese dei prezzi ricorrendo a meccanismi di indicizzazione, come quelli dei salari negli anni 70 o, più recentemente, dei titoli di Stato.

Dunque, idealmente, un’inflazione moderata, se mantenuta tale agli occhi degli operatori economici, e parzialmente inattesa può rivelarsi positiva per un dato Paese in un determinato momento se i suoi benefici potessero dimostrarsi particolarmente vantaggiosi rispetto ai suoi (contenuti) costi.

Deve essere questo il contesto che ha caratterizzato finora gli Stati Uniti di Biden, dove si è deliberatamente voluto lasciar crescere i prezzi a ritmi mai visti da quarant’anni a questa parte, che rasentano ormai la soglia del 7% annuo.

Un livello che il governo americano deve aver ritenuto ottimale, visto che solo ora le prime perplessità su ulteriori aumenti paiono ottenere un certo ascolto e che dunque solo da ora in poi è lecito attendersi una qualche reazione da parte della Fed per arrestarne una ulteriore crescita.

Quindi la domanda più appropriata dovrebbe essere: dove sono tutti i benefici che l’inflazione ha consentito, tali da far sì che il presidente Biden e il presidente della Fed Powell non abbiano sentito la necessità di interrompere la crescita dei prezzi, pur certamente in qualche modo costosa? La risposta è semplice.

Questa inflazione americana così alta è figlia di altre scelte di Biden, che hanno portato i prezzi americani a crescere, ad esempio, ben più di quelli dell’area dell’euro, anche a parità di cause globali come quelle menzionate sopra. Quali scelte? Beh, in realtà una sola: quella di sospingere la domanda di beni, servizi, e lavori pubblici per il tramite di una politica fiscale ampiamente in deficit, a livelli decisamente superiori a quelli europei (10,5% del Pil rispetto al 3,5%).

Perché? Semplice, per venire incontro alle esigenze della fascia più debole della popolazione con manovre che permettono la loro occupabilità e dignità in un momento difficile, facendo sentire la presenza della politica vicina a loro. E di nuovo: perché? Perché Biden sa bene qual è lo spettro che deve combattere: quello (come Roosevelt negli anni Trenta) della minaccia alla democrazia che Trump, potenziale candidato alle prossime elezioni, costituisce.

In Europa l’inflazione è decisamente più bassa che negli Stati Uniti perché la politica fiscale è molto meno espansiva. E lo è perché si percepiscono come decisamente inferiori i vantaggi di queste manovre in deficit. Si dirà, è giusto, noi non abbiamo Trump!

Falso, noi abbiamo ancora viva e vegeta un’enorme minaccia, quella sovranista, al nostro progetto europeo e l’unico modo per cancellarla sarebbe fare quello che ha fatto Biden: ben di più di quanto non stiamo facendo con il Recovery plan, investire ancora, in deficit, abbattendo il rapporto debito-Pil tramite la crescita.

Questo farebbe sì aumentare i prezzi europei al di sopra del famigerato 2% (per la prima volta) ma, a fronte di costi leggeri assai, avremmo il potere di consolidare – grazie alla maggiore occupazione e al consenso che si creerebbe attorno a essa – la costruzione della casa europea per le nostre future generazioni, mettendole al riparo da nuovi conflitti interni, che mai potranno sopirsi del tutto in assenza di una vera unione europea: un beneficio dell’inflazione di dimensioni straordinarie.

L’inflazione europea merita di crescere, perché l’Europa merita finalmente di crescere e così debellare il virus del pessimismo che la pervade ormai da più di dieci anni.

Exit mobile version