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Perché (forse) è la volta buona per un nuovo accordo nucleare con l’Iran

L’Iran potrebbe accettare compromessi sul Jcpoa, isolato e in difficoltà. Ci sono nuovi indicatori che questo nuovo round negoziale a Vienna possa portare importanti risultati

Quando oggi, martedì 8 febbraio, i colloqui per la ricomposizione del Jcpoa, l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano riprenderanno, sui tavoli di Vienna ci sarà un documento. Una bozza di 20 pagine, rivela il quotidiano economico russo Kommersat (che ha da poco intervistato il capo negoziatore di Mosca, il molto attivo Mikhail Ulyanov) su una nuova intesa da cui far ripartire quella siglata nel 2015 e messa in crisi nel 2018 dopo l’uscita unilaterale degli Stati Uniti.

Secondo persone informate sui dialoghi diplomatici in corso, questa bozza farà da base sulla quale sarà poi possibile completare la costruzione dei negoziati in un tempo “abbastanza breve”. Rumors parlano della possibilità che l’Iran faccia un atteso primo passo: accetterebbe di rientrare nella compliance del Jcpoa — dalla quale era uscito come rappresaglia per il ritiro americano dal deal — senza ricevere l’accettazione completa di tutte le richieste avanzate. Una scelta fondamentale per dimostrarsi affidabili in una fase (lunga oltre tre anni) in cui il termine che è mancato è stato sempre la fiducia reciproca tra gli attori dell’accordo.

È possibile che la guida suprema Ali Khamenei, il decisore da cui nella Repubblica islamica passa l’ultima parola su certi dossier, ha approvato i colloqui diretti con gli Stati Uniti perché ha bisogno di risolvere la questione nucleare prima di passare ad altri problemi (più sentiti dalla sua cittadinanza). Il riavvio del Jcpoa con all’interno gli Usa comporterebbe infatti l’abolizione (immediata o progressiva?) delle pesanti sanzioni di Washington che mettono ancora più in difficoltà l’economia di Teheran — già in crisi.

Il quadro sintetico lo ha fornito l’ex top diplomatico iraniano Javid Ghorban-Oghli all’interno un’analisi sul sito dell’Atlantic Council (analisi per altro firmata da un misterioso “Anonymous” che però per quel che scrive sembra molto ben inserito nella politica iraniana, e se il think tank americano le pubblica deve esserlo di certo). Il prossimo round di colloqui a Vienna, “potrebbe essere quello finale”, anche perché sia la Russia che la Cina, che fanno parte del formato “5+1” che ha negoziato il Jcpoa e ora si incontra di nuovo a Vienna, “non sono alleati affidabili per l’Iran”.

Sembra che Teheran abbia ammorbidito le dure condizioni che aveva posto per un ritorno al pieno rispetto dell’accordo — posizioni che erano anche una postura dovuta dal presidente conservatore Ebrahim Raisi al suo elettorato e soprattutto ai sui stakeholder politici. Si chiedeva la rimozione di tutte le sanzioni americane imposte dall’amministrazione Trump e il rifiuto di colloqui diretti con gli Stati Uniti a Vienna, e forse il cambiamento si lega anche al fatto che Teheran si è visto isolato — lunedì il governo cinese, dopo una conversazione con quello iraniano, ha fatto sapere che tutto è pronto per il riavvio del Jcpoa.

Mosca e Pechino possono anche usare una vicinanza con l’Iran per infastidire il blocco dei paesi democratici guidato dagli Usa, ma pragmaticamente non lo vogliono come un attore nucleare fatto e compiuto; non vogliono ulteriori destabilizzazioni (il raggiungimento delle capacità atomiche iraniane potrebbe portarsi dietro una pericolosa corsa alla Bomba in Medio Oriente) e non vogliono allargare il club delle potenze con in mano questo genere di deterrente.

I giornali iraniani (molto controllati dal regime) hanno già iniziato la campagna informativa per acquietare i cittadini sul possibile ritorno ai dettami del Jcpoa, dopo che le violazioni erano state descritte come atto di forza sovrana. Va detto che non si tratta di un lavoro epico: al di fuori del parlamento dove si giocano anche (soprattutto) mosse politiche, l’opposizione ai colloqui diretti è limitata agli estremisti di basso livello e agli studenti di alcune università reazionarie quanto meno centrali.

Interessante lo spunto del Washington Institute su questo: la Repubblica islamica celebrerà il suo quarantatreesimo anniversario questo mese, quindi ci si può aspettare che la sua retorica diventi ancora più aggressiva e “rivoluzionaria” (è la propaganda bellezza, senza il sistema rischia di crollare), ma se il tenore cambia durante le commemorazioni rivoluzionarie — e in particolare nell’anniversario dell’8 febbraio della cosiddetta “Alleanza Homafaran”, che Khamenei ha già usato prima per parlare del Jcpoa — allora quello sarebbe un indicatore significativo che il regime iraniano è pronto al compromesso.

Se questo avviene a Teheran, con riflessi a Vienna, a Washington la questione si muove altrettanto. Trenta senatori hanno inviato una lettera al presidente Joe Biden in cui chiedono non solo di essere informati ma di poter dire l’ultima parola sulle evoluzioni. L’Iran Nuclear Agreement Review Act del 2015, noto come INARA, stabilisce già tra le altre cose che il presidente deve inviare al Congresso “il testo dell’accordo e tutti i relativi materiali e allegati” entro cinque giorni dal raggiungimento dello stesso. Dopo di che, la legge afferma che almeno 60 senatori devono votare per rimanere nel patto con l’Iran.

Così come a Teheran — dove è da poco uscito il libro dell’ex ministro degli Esteri Javad Zarif in cui si svelano dettagli velenosetti sul ruolo chiave avuto nella redazione del Jcpoa dall’International Crisis Group guidato ai tempi da Robert Malley, ora inviato speciale della Casa Bianca e capo negoziatore a Vienna — anche a Washington si snocciolano dinamiche politiche. La lettera inviata a Biden per chiedere per il Senato l’ultima parola è stata pensata dal senatore ultra-conservatore Ted Cruz, e appare come un modo per intralciare la strada all’amministrazione democratica. La quale intanto la scorsa settimana ha ripristinato le deroghe alle sanzioni per permettere all’Iran di impegnarsi con altri Paesi in progetti di cooperazione nucleare, una mossa tecnica ma considerata anche un indicatore di un imminente ritorno americano al Jcpoa.

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