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La Russia provoca sui cieli europei. La risposta Nato

Le missioni con cui i caccia Nato intercettano le provocazioni della Russia nel nord Europa raccontano di come l’alleanza sia intenzionata a non accettare prove di forze da Mosca

Inviati la scorsa settimana per rafforzare il fianco orientale della Nato in risposta all’accumulo militare della Russia ai confini con l’Ucraina, due F15 statunitensi sono subito entrati in azione per intercettare due Mig29 russi e altri due Su35 che si stavano avvicinando nello spazio aereo alleato.

Si tratta di attività decise da Mosca come forma di provocazione e per marcare una presenza territoriale su quell’area. Sono quasi routine, la Russia le compie continuamente anche in fasi più distese del rapporto con l’Occidente, ma in questi giorni in cui le tensioni attorno al confine ucraino hanno inasprito il rapporto, la cadenza è cresciuta. Chi scrive ne ha registrate tre nel giro di tre giorni: prima sono stati caccia della RAF inglese sui cieli dell’Atlantico settentrionale, poi F35 norvegesi e infine gli americani.

I jet americani (sei in totale) sono arrivati in Estonia dalla loro base in Gran Bretagna per partecipare a un esercitazione Nato programmata. Ma ora rimarranno a tempo indeterminato per rafforzare la piccola missione di Air Policing nel Baltico — nella zona si trova l’unico frammento di spazio aereo della Nato direttamente al confine con la Russia. Integreranno quattro F-16 belgi già attivi in Estonia con compiti analoghi.

Il dispiegamento americano ha un significato in un momento in cui il presidente russo, Vladimir Putin, ha reso chiaro che l’obiettivo finale per cui ha costruito il potenziamento militare attorno all’Ucraina è quello di spingere la Nato lontano dal confine della Russia e intavolare un dialogo bilaterale su questo direttamente con gli Stati Uniti. Anche con lo schieramento dei caccia americani in Estonia — dove sono stati già altre volte per esercitazioni, ma mai in formato operativo — Washington dimostra di non voler accettare prove di forza.

Putin ha ottenuto l’effetto opposto del suo intento. Oltre agli aerei da guerra statunitensi in Estonia, jet da combattimento F-16 danesi sono stati inviati per rafforzare la missione di polizia aerea del Baltico nella vicina Lituania. La Danimarca sta inviando una fregata nel Mar Baltico; la Gran Bretagna ha annunciato che raddoppierà il numero di truppe di terra in servizio sotto la Nato in Estonia; i Paesi Bassi stanno inviando jet da combattimento F35 in Bulgaria, e la Spagna ulteriori navi da guerra. Tutte attività volte a rafforzare la presenza in Europa orientale. Il presidente statunitense Joe Biden ha messo in stato di mobilitazione 8.500 truppe da schierare con breve preavviso nei Paesi europei alleati: di questi tremila sono già arrivati tra Germania, Romania e Polonia.

La sfida di Putin ha ricordato all’alleanza il motivo per cui è stata creata — per difendere l’Europa. Una sorta di promemoria per gli Stati Uniti e gli altri membri che la Russia è ancora una minaccia, anche in termini militari convenzionali, oltre che sul piano ibrido.

Minaccia che i Paesi membri dell’Europa orientale denunciano con costanza, sentendone più il peso diretto, quotidiano, mentre quelli più distanti tendono a sfumare — cercando forme di contatto con Mosca. “Gli alleati della Nato si sono uniti e sono stati molto forti nel loro messaggio”, ha detto il primo ministro estone Kaja Kallas, in un’intervista al Washington Post.

“Vediamo che siamo effettivamente più forti di prima”, dice Kallas, un fattore che Putin potrebbe aver sottovalutato nel suo calcolo anche osservando dinamiche come “il brusco e caotico” (copyright Liz Sly, WaPo) ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, o i momenti complessi nelle dinamiche interne a Parigi, Berlino o Londra. Situazioni che hanno anche contribuito a sottolineare le differenze all’interno dell’Unione europea su quanto andare a fondo con potenziali sanzioni sulla Russia e se e come inviare armi all’Ucraina.

Se Putin cercava una finestra di opportunità per dividere la Nato, allora la simbologia collegata alle missioni repentine con cui i caccia alleati intercettano le provocazioni russe è un segnale forte di compattezza. Sebbene i rinforzi sul fronte orientale non sono determinanti in termini numerici, è il messaggio che conta. La prontezza operativa è un fattore determinante. Tuttavia è stato anche precisato che questi schieramenti non riguarderanno l’Ucraina, aspetto di cui Mosca è consapevole e su cui prova a stressare il dossier: i Baltici vorrebbero aiuti più ampi, perché temono di finire in situazioni analoghe in futuro (anche se sono protetti dallo scudo dell’Articolo 5, quello che riguarda la risposta collettiva davanti a un’aggressione, mentre Kiev no).

L’Ucraina ha già fatto da aggregatore per l’alleanza: dal 2014 i Paesi baltici — gli unici insieme alla Norvegia confinanti con la Russia — hanno iniziato a ospitare contingenti Nato multinazionali sul proprio territorio. Risposta collettiva di deterrenza davanti ai fatti che hanno scatenato la guerra nel Donbas e l’annessione della Crimea da parte della Russia.

Mosca ha rafforzato la propria presenza in quelle regioni che lambiscono il territorio Nato, dall’altra parte qualcosa di simile sta facendo da tempo l’Alleanza Atlantica — circostanze che riportano il blocco occidentale agli impegni per cui è nato, allontanandolo dagli impegni congiunti intrapresi in Medio Oriente e altre aree del mondo, o gli intenti con la Cina o nel combattere le crisi connesse al cambiamento climatico.

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