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Putin oltre Kiev, allo Zar serve un piano C

Putin deve trovare una exit strategy per raccontare quella che si dimostra ogni giorno di più una scelta mostruosa come una vittoria. Ingolfato a Kiev, c’è molto ignoto sulle prossime mosse del presidente russo, ma un aspetto è quasi certo: la Russia uscirà a pezzi

Il convoglio di mezzi militari russi lungo decine di chilometri potrebbe essere l’insieme di unità minori che si sono trovate a portare rinforzi su Kiev — per un secondo assalto — e sono finite ingolfate. Si sarebbe creato un gigantesco collo di bottiglia perché diverse direttrici che portano alla capitale sono tagliate, in parte per azioni difensive tattiche, in parte perché i convogli avanzati del Cremlino sono stati martellati dai droni (turchi), dagli aerei dell’aviazione ucraina e dall’artiglieria e — distrutti, semi distrutti, senza carburante o abbandonati dai militari russi in fuga — ora bloccano le strade.

A Bucha, nell’hinterland nordoccidentale di Kiev, c’è un esempio di questo ingorgo: le strade per accedere alla cittadina (che si trova a 30 chilometri dalla capitale) sono bloccate da veicoli e corpi di militari russi, lasciati indietro dai commilitoni e c’è un problema perché ora i cittadini dicono “siamo isolati” (facendolo mandano un messaggio velenoso, siamo così perché abbiamo affossato i russi).

In una lunga riflessione sulla situazione militare, Lawrence Freedman, professore emerito di Studi di Guerra al King’s College di Londra, scrive che “se mai ci fosse stata la possibilità che questa guerra finisse con la completa sottomissione dell’Ucraina con la forza delle armi, ora non c’è più”. Fallito il Piano A, quello con cui Vladimir Putin aveva mosso i suoi generali con l’obiettivo di conquistare il Paese rapidamente (dimostrato da intercettazioni e documenti sottratti ai soldati russi), si è passati all’opzione B. Aumentare l’intensità degli attacchi e dividere le unità russe in operazioni spot che si sono rivelate, anche queste, non eccezionali.

Tant’è che i russi non controllano effettivamente il territorio indicato in carte come questa riportata, redatta dalla Difesa inglese. Il controllo è una questione di carattere politico, i russi sono solo militarmente più sicuri in quelle zone — ma come si è già visto questa sicurezza è per ora precaria. Il problema generale è che sia il Piano A che quello B sono falliti, e sono falliti innanzitutto sul terreno ma anche sul campo politico internazionale. La resistenza ucraina ha dato agli Stati Uniti e all’Unione europea (e a Paesi come Svizzera, Corea del Sud, Giappone e Canada) la spinta per procedere a sanzioni durissime contro il regime putiniano. Se si considera la posizione ormai non più velatamente critica presa per interesse diretto dalla Cina, Mosca è totalmente isolata: molto più di Kiev militarmente accerchiata.

E adesso? “Il peggio sta arrivando”, fa sapere l’Eliseo dopo la telefonata tra Emmanuel Macron e Putin. Alla Reuters funzionario dell’Unione europea fanno sapere che è molto probabile che la Russia deciderà di reintrodurre la corte marziale sul proprio territorio. Se ne parla da qualche giorno, non è un buon segnale perché significa che aumenterà la securitizzazione interna, aumenterà la repressione del dissenso (qualora ce ne fosse bisogno) e forse significa che Putin non vuole correre il rischio di far sfuggire qualcosa o qualcuno dal suo controllo.

“L’intenzione, dovesse essere confermata, è quella di evitare ogni genere di disordine che possa creare problemi al Cremlino, perché è evidente che la guerra comporterà una forma di erosione del consenso popolare per Putin”, ha spiegato Eleonora Tafuro Ambrosetti, research fellow su Russia e Asia Centrale dell’Ispi, durante un Live Talk organizzato da Formiche.net.

Difficilmente tutto finirà semplicemente con le forze russe cacciate dall’Ucraina. Ma è anche vero che se all’inizio Putin pensava che con una rapida decapitazione della leadership di Kiev avrebbe potuto installare al potere una figura controllabile da remoto (ad esempio una figura come Viktor Medvedchuk), ora questa ipotesi ha perso di concretezza dal momento che l’attacco ha praticamente fatto schierare l’intera popolazione ucraina contro la Russia. Non è banale, perché in Ucraina ci sono molti russi (di etnia, lingua, cultura) che hanno dimostrato di avere ben poco astio nei confronti di Mosca già in occasione dell’annessione della Crimea e dei tentativi di separazione nel Donbas.

Lo scenario più plausibile è la conclusione negoziata delle ostilità che potrebbe arrivare in una grande e scenografica conferenza internazionale. Meno probabile che esca dai colloqui diretti per il cessate il fuoco di cui un secondo round si tiene oggi, giovedì 3 marzo. Nota di colore: si terranno a Brest, in Bielorussia sud occidentale, dove il 3 marzo del 1918 fu firmato il trattato di pace tra la Russia bolscevica e gli Imperi centrali (l’Impero tedesco, l’Austria-Ungheria, la Bulgaria e l’Impero ottomano) che di fatto sancì la resa dei Mosca e la sua uscita  dalla Prima guerra mondiale. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha affermato che Mosca è pronta a parlare per porre fine ai combattimenti, ma non smetterà di prendere di mira le infrastrutture militari ucraine.

Si tratta di una premessa che lascia poco spazio. Al primo round la Russia si è presentata con le richieste irricevibili che aveva avanzato preliminarmente all’invasione nei contatti con Nato, Usa, Ue (Ucraina mai nell’Alleanza Atlantica o in Europa, riconoscimento del Donbas eccetera). Una fase in cui dichiarava che le truppe non erano state movimentate per attaccare. Incontri del genere poco hanno del negoziato. Putin sembra intenzionato nel breve termine ad andare avanti, e questo aumenta il problema sul come costruirsi una exit strategy.

Un qualcosa che gli permetta di creare una narrazione vittoriosa su quanto è successo (cruciale per poter continuare a gestire il potere, dove anche dovessero esserci cambiamenti non sarebbero di sistema ma di leadership, e soprattutto per l’ambizione personale di lasciare un segno nella storia russa). “Putin non è solo un paria, ma è diventato uno dei mostri della storia”, ha scritto sulla Bloomberg la columnist Therese Raphael, spiegando che l’invasione e gli attacchi contro i civili difficilmente gli eviteranno incriminazioni internazionali e questo rende ancora più complicati i negoziati.

Contemporaneamente gli ucraini potrebbero accettare di promettere di non fare cose che non avrebbero fatto comunque, come sviluppare un arsenale nucleare o essere nazisti (quasi ridicola l’accusa russa se si pensa che il presidente Volodymyr Zelensky è ebreo), e potrebbero anche fare alcune concessioni importanti, come accettare la perdita della Crimea: tuttavia Kiev dovrà emergere nella storia come un paese libero e indipendente, senza truppe russe sul proprio suolo. Ossia, gli ucraini non possono uscire da sconfitti.

Oltre Kiev c’è molto ignoto, sia per Putin che per l’Europa. “La nozione di sicurezza collettiva è scomparsa definitivamente”, ha fatto notare durante il Live Talk Riccardo Alcaro, responsabile del programma “Attori globali” dello Iai: “La futura stabilità sarà determinata dall’equilibrio militare, da un contenimento dell’influenza militare russa a cui la Nato, dunque Europa e Stati Uniti, faranno fronte potenziando i dispositivi nelle aree di contatto”.

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