Skip to main content

Vi spiego come battere (davvero) l’inflazione. La versione di Cipolletta

Intervista all’economista che nel 1992, da dg di Confindustria, negoziò la soppressione della scala mobile. Sbagliato tornare a forme di indicizzazione dei salari, si rischia solo una spirale inflazionistica. Meglio aggiornare ogni anno i contratti collettivi. La Bce? A Francoforte non sono in stato confusionale sui tassi, semplicemente c’è a chi un aumento del costo del denaro conviene e a chi no

Qualcuno, in queste settimane di bollette impazzite, di gas e materie prime alle stelle starà rimpiangendo la cara vecchia scala mobile. Lo strumento con cui agganciare i salari all’aumento dei prezzi, alias inflazione, nato in Francia nei primi anni ’50 e poi importato una ventina di anni dopo in Italia, per essere definitivamente soppressa dal governo Amato I, ormai 30 anni fa.

Eppure, sembra di essere tornati al punto di partenza, se è vero che nel Def da poco approvato il costo della vita salirà al 5,8% a fine anno o che, calcoli di Confcommercio, i prezzi saliranno addirittura al 6,5%. Una cosa è certa, di questo passo i salari difficilmente staranno dietro all’inflazione, erosi da una corsa senza sosta che parte dall’energia e arriva sullo scaffale dei supermercati. Formiche.net ne ha parlato con Innocenzo Cipolletta, economista di lungo corso e che proprio nel 1992, in veste di direttore generale della Confindustria, negoziò con il governo il superamento della scala mobile.

L’inflazione è tornata a mordere come non mai, mettendo una seria ipoteca sui salari e sul lavoro dipendente. C’è chi riecheggia la necessità di tornare ad agganciare le retribuzioni al costo della vita, come avveniva ai tempi della scala mobile, soppressa esattamente 30 anni fa. Lei cosa ne pensa?

Certamente sta tornando la voglia e forse l’esigenza di indicizzare i redditi per difenderli dall’inflazione. Ma non è quella la strada, perché il rischio è proprio quello di riproporre la spirale inflazionistica da cui siamo usciti con tante difficoltà negli anni Novanta. Credo sia inopportuno tornare a processi di questo tipo.

Ma se i salari non tengono più il passo dei prezzi, il potere d’acquisto delle famiglie e più in generale dei lavoratori viene inevitabilmente eroso…

Questo è vero, ma la strada per evitare tutto questo è un’altra e non certo quella di una qualche forma di indicizzazione. La via maestra è ridurre il numero di anni relativi alla parte salariale dei contratti. Mi spiego, dopo la scala mobile tale periodo fu ridotto a due anni, oggi credo che si debba arrivare a un anno, perché in questo modo, se io contratto l’aumento salariale annualmente e sulla base di un’inflazione prevista, ecco che bypasso automaticamente la necessità di indicizzare i salari. In altre parole, ogni anno decido se aumentare o meno il salario sulla base di una contrattazione. E poi, se aumento il salario un anno e l’inflazione si attesta al di sotto o al di sopra delle stime iniziali, posso sempre compensare l’anno dopo.

Contrattare un eventuale aumento salariale ogni anno, basandosi sulle stime dell’inflazione?

Esattamente. Vede, dobbiamo tornare proprio a quegli accordi che seguirono alla fine della scala mobile, perché ridurre la durata temporale dei contratti salariali per poi eventualmente ridiscuterli è, a mio avviso, la soluzione giusta per evitare di tornare alle indicizzazioni che finiscono per perpetuare e amplificare i processi inflazionistici.

Dovremmo però mettere in conto eventuali strappi della stessa inflazione. Se accelera troppo, può essere un guaio. La sua proposta è in grado di fronteggiare questa minaccia?

Sì. Le faccio un esempio, se a maggio l’inflazione aumenta il lavoratore perde potere d’acquisto per qualche mese, fermando il processo inflattivo. Ma poi, l’anno dopo, può recuperare il terreno perduto con la nuova contrattazione.

Gli imprenditori da parte loro, per dare più potere d’acquisto ai lavoratori, suggeriscono il solito taglio del cuneo fiscale. Può funzionare?

Guardi, è improprio parlare di cuneo, perché il fisco sui salari bassi non esiste, il costo del lavoro su quelle fasce è esiguo. Il vero cuneo è quello contributivo, ma tagliare i contributi per sganciare l’importo della pensione dall’ammontare dei contributi versati, non mi pare una buona idea.

Andiamo in Europa. La Bce non ha ancora chiarito se e quanto aumenterà il costo del denaro. A Francoforte sono in stato confusionale?

Assolutamente no, semmai ci sono due posizioni differenti. Altro esempio, la Germania sconta delle strozzature di offerta e un aumento del costo del denaro sarebbe per Berlino uno strumento per frenare l’inflazione. In Italia, o in Spagna, la situazione è diversa perché non avendo capacità produttive non sfruttate, non ci conviene un aumento dei tassi. E poi scusi, l’Europa non ha in atto un processo inflattivo, una rincorsa prezzi-salari. Lo hanno alcuni Paesi, ma non basta a giustificare un aumento dei tassi.

Exit mobile version