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Bce, politica monetaria ok (per ora), manca quella di bilancio. L’analisi di Polillo

Cosa stanno facendo i singoli governi? Qual è la relazione che intercorre tra politica monetaria e di bilancio che rappresentano gli elementi costitutivi di una politica economica unitaria, che dovrebbe essere univoca e coerente?

Com’era forse inevitabile, le ultime decisioni della Bce hanno fatto discutere: più all’esterno, per la verità, che all’interno del board, in cui ha prevalso l’unanimità dei partecipanti. Grande convinzione o semplice “wait and see”, in attesa di vedere quelli che saranno gli sviluppi futuri di una strategia appena abbozzata? Per cercare di capire si deve partire dalle decisioni assunte. “I tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale – come precisato nel comunicato finale della stessa Bce – saranno innalzati rispettivamente all’1,25%, all’1,50% e allo 0,75%, con effetto dal 14 settembre 2022”.

Al tempo stesso è intenzione della Bce continuare a investire sia nel Paa (Programma di acquisto di attività) che nel Peep (Programma di acquisto per l’emergenza pandemica), evitando cioè la dismissione dei titoli già posseduti, ma reinvestendo le somme ricevute alla loro scadenza naturale, contrastando, al tempo stesso, le possibili frammentazioni del mercato (leggi attacchi speculativi ingiustificati). Mentre per quanto riguarda operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (OMRLT-III), saranno mantenute per consentire alle singole banche nazionali di ottenere sconti sul relativo rifinanziamento, sempre che quei fondi siano usati a favore di famiglie ed imprese. Programma complesso come si vede, anche se ciò che più ha colpito è stato quel salto di 75 punti base, che segue quello precedente di 50 punti, che molti hanno considerato con spavento: essendo stato uno dei più consistenti nella storia della banca centrale. Una paura giustificata?

Per valutare il tutto occorre partire, innanzitutto, dal mondo reale; resistendo alla tentazione di fare appello alle grandi teorie che da sempre dovrebbero giustificare il comportamento delle banche centrali. Richiamo giusto, se fossimo in un periodo normale. Ma cosa c’è di normale nel comportamento di Vladimir Putin, pronto a rischiare la catastrofe di un conflitto mondiale, nel tentativo di ripristinare il sogno del vecchio dominio imperiale di Santa madre Russia? Problema indubbiamente politico, ma tale da condizionare l’evoluzione del ciclo internazionale e quindi incidere sulla politica congiunturale (monetaria e fiscale) delle grandi aree del Pianeta.

Il dato da cui partire è proprio la politica monetaria: un occhio all’inflazione e alla crescita economica, l’altro alla dinamica dei saggi d’interesse. Gli esperti della Bce hanno rivisto significativamente al rialzo le proiezioni sull’inflazione, a livello europeo, che si porterebbe in media all’8,1% nel 2022, al 5,5% nel 2023 e al 2,3% nel 2024. Mentre le previsioni della crescita del Pil sono state riviste al ribasso: 3,1% nel 2022, allo 0,9% nel 2023 e all’1,9% nel 2024. Un inizio ben poco rassicurante di quello che potrebbe essere l’avvio di un processo di stagflation, la cui dinamica è sempre più legata a fattori imprevedibili: gli sviluppi della guerra in Ucraina, quindi il suo riflesso sulla dinamica dei prezzi dei prodotti energetici e delle altre materie prime e sul tasso di crescita del commercio internazionale. Nel momento in cui la globalizzazione, così come l’abbiamo conosciuta, sembra essere destinata ad un rapido declino. Il “che sarà?” rimane la grande incognita del momento: produrrà, almeno nel breve periodo, incertezza e stasi non solo nel mondo degli affari, ma nelle politiche delle stesse istituzioni.

Per i tassi d’interesse è sufficiente limitarsi all’Italia, considerato che la relativa posizione è peggiore, rispetto a quella degli altri Paesi europei. Secondo i dati di Banca d’Italia, alla fine di marzo gli interessi sui mutui ipotecari (immobili acquistati da famiglie ed imprese) oscillavano tra un minimo del 1,39 (Liguria) ed un massimo del 1,66 per cento (Sardegna). A loro volta i tassi di interesse (Taeg), praticati nei confronti di famiglie ed imprese, erano compresi tra il 2,37 per cento (prestiti a più di 5 anni) e 3,12 per cento per i prestiti con scadenze inferiori all’anno. In compenso già allora il tasso tendenziale d’inflazione (anno su anno) era pari al 6,5 per cento. Il che significa che quei tassi erano negativi in termini reali. Una spinta potente a indebitarsi per restituire, alla scadenza, capitale mangiato dall’inflazione.

L’aumento dei tassi di riferimento da parte della Bce avrà come inevitabile conseguenza un aumento dei tassi attivi delle banche. Di quanto, staremo a vedere. Ad agosto, tuttavia, l’inflazione acquisita (proiettata a fine anno) è stata pari al 9,8 per cento. Lo scarto tra i due parametri (nuovo tasso di riferimento della Bce ed inflazione) è tale da consentire facili previsioni circa il permanere di tassi d’interesse reali negativi. Il che dovrebbe comportare di conseguenza una politica monetaria ancora moderatamente espansiva. Addirittura in controtendenza rispetto all’obiettivo di riportare il tasso d’inflazione verso il 2 per cento, come più volte enunciato dalla stessa Lagarde. Quasi un controsenso. Al punto che la stessa presidente della Bce è stata costretta a precisare che quello deciso è stato solo un primo passo. Altri ne seguiranno nei due, tre o quattro incontri successivi (forse fino al prossimo febbraio) per accentuare la stretta, in vista di un possibile, soprattutto auspicabile, ritorno alla normalità.

Se così stanno le cose, quali sono stati i motivi reali di un gradualismo che sembrerebbe eccessivo? L’attenzione riposta sui rapporti di cambio tra l’euro ed il dollaro. Ancora alla fine di marzo ci voleva 1 dollaro e 11 cent per acquistare 1 euro. Questa stessa mattina, invece, le due monete si scambiavano alla pari. Nei giorni precedenti era andata anche peggio: con l’euro sotto la parità. In meno di 6 mesi, quindi, l’euro si era svalutato rispetto al dollaro di oltre 11 per cento. Conseguenza, tra le mille altre cose, della maggiore determinazione della Fed nel combattere le spinte inflazionistiche. Con l’aver aumentato in anticipo i tassi d’interesse. Le prime avvisaglie si erano avute il 16 marzo scorso (50 punti base), quindi il 4 maggio (altri 50) poi il 15 giugno (75 punti base) ed infine il 27 luglio (altri 75). Attualmente il tasso di riferimento, negli Usa, è pari al 2,5 per cento: il doppio di quell’europeo.

Tra svalutazione dell’euro, rispetto al dollaro, e relative politiche monetarie nei due continenti, esiste un legame inscindibile. La più accentuata dinamica dei tassi di interesse, al di là dell’Atlantico, ha calamitato ingenti movimenti di capitali che hanno preferito acquistare titoli americani, disinvestendo, se necessario, le proprie posizioni in Europa. Ed in effetti i rendimenti sono, ancora oggi, profondamente diversi. I Treasury americani rendono il 3,45 per cento, mentre i Bund tedeschi (stessa scadenza decennale) meno della metà: 1,68 per cento. Il che spiega il trasferimento di denaro. Ma al di là delle preferenze degli investitori, che pure contano, ciò che turba la Bce è soprattutto la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Considerato che gas e petrolio sono commerciati in dollari, ne deriva che quella svalutazione del 10 per cento ed oltre, comporta un corrispondente aumento dei costi, dovuti all’altalena valutaria. E quindi ad ulteriori pressioni sui prezzi, essendo, quella sperimentata, un’inflazione da costi. Per avere un’idea, secondo gli ultimi dati Istat, l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici è stato pari a quasi 5 volte il tasso medio d’inflazione. Puntare quindi a rivalutare l’euro, o evitarne l’ulteriore deprezzamento, è anche un mezzo per contenere l’inflazione.

Finora si è fatto cenno alla sola politica monetaria. Ma la politica di bilancio? Cosa stanno facendo i singoli governi? Qual è la relazione che intercorre tra queste due parti che rappresentano gli elementi costitutivi di una politica economica unitaria, che dovrebbe essere univoca e coerente? Cioè perseguire, seppure su fronti diversi, gli stessi obiettivi. Tutti i governi – dalla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania, alla Spagna ed all’Italia – stanno intervenendo con politiche di sostegno alle famiglie ed alle imprese. Le misure adottate sono diverse, come pure gli stanziamenti previsti. Non è questa la sede per analizzarle nel dettaglio. Tutte, dovrebbero, comunque, avere un comune minimo denominatore. Non potendo essere restrittive, a causa della drammaticità della crisi, dovrebbero, tuttavia, essere come minimo neutrali. Valeva dire non contribuire alla crescita dell’inflazione.

Se così non fosse, avremmo un comportamento schizofrenico. Con la Bce che, almeno nel medio periodo, è orientata a frenare e i governi, decisi, invece ad allargare la borsa. Un corto circuito. Che porterebbe alla fine ad un impazzimento generale. Prendiamo la situazione italiana. Finora i cosiddetti ristori sono stati pari a circa 50 miliardi. Altri 12 o 13 verranno dal prossimo decreto. Non male per un Paese che ha ancora (ma molti lo dimenticano) il secondo debito più alto del mondo. Finora la neutralità della manovra è stata assicurata dalle coperture finanziarie previste. Dato contestato sia dalla Lega di Matteo Salvini che dal Movimento di Giuseppe Conte, che invocano “scostamenti” da paura. Nel qual caso il rilancio inflazionistico sarebbe più che consistente.

Fin quando Mario Draghi sarà alla testa del governo, ogni pericolo è scongiurato. Eventuali colpi di mano in Parlamento sarebbero contrastati dal vaglio attento sulle coperture finanziarie, da parte della Presidenza della Repubblica, in sede di promulgazione della legge. Ma dopo? Terrà questa linea del Piave? Si dirà: fossero questi i problemi più seri. Sennonché siamo entrati in una fase in cui tutto si tiene: dalla politica estera a quella di bilancio. Considerato il coté europeo e internazionale che, in entrambi i casi, condiziona la situazione italiana. La speranza è che gli elettori, chiamati alle urne, comprendendo l’importanza della partita, se ne facciano carico.

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