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La Cina è meno vicina. L’Ue vuole controllare gli investimenti in uscita

Robert Habeck

I Ventisette stanno considerando come monitorare l’operato delle proprie aziende in Cina. L’obiettivo è duplice: evitare di finanziare e offrire il fianco al rivale sistemico. E con la svolta tedesca in arrivo, la postura europea è sul punto di cambiare

Con il crescere dell’assertività di Pechino è cresciuta anche l’attenzione occidentale verso le tecniche di influenza cinesi, declinate nelle loro varie forme – politiche, diplomatiche e commerciali. Dopo anni di avvertimenti statunitensi, anche Bruxelles ha iniziato a considerare la Cina come una rivale sistemica. Una delle conseguenze più evidenti è stato l’aumento di controlli sugli investimenti diretti cinesi, pratica che in Italia il governo di Mario Draghi ha espanso aggiornando le leggi sul Golden power.

Oggi l’Unione europea sta allargando lo sguardo fuori dai propri confini. Complice il rischio per l’industria europea, schiacciata com’è tra le altre due superpotenze, l’Ue sta considerando la possibilità di effettuare controlli su come le aziende europee operano all’estero. Stando a Politico Brussels Playbook, i Ventisette stanno pensando di monitorare anche gli investimenti verso la Cina. Nel suo programma di lavoro per il 2023, la Commissione europea a guida Ursula von der Leyen ha promesso di “esaminare se siano necessari ulteriori strumenti per il controllo degli investimenti strategici in uscita”.

Siamo ancora nelle fasi iniziali della definizione delle regole di screening per gli investimenti in uscita, che secondo gli esperti potrebbe iniziare mettendo sotto osservazione un piccolo gruppo di settori critici per la sicurezza. Più avanti, questo strumento potrebbe avere enormi implicazioni per aziende come Airbus, il campione europeo dell’aeronautica già criticato per aver prodotto velivoli all’avanguardia (sviluppati parzialmente attraverso le sovvenzioni europee) per il regime cinese. Parimenti, impatterebbe le grandi industrie – tra cui le case automobilistiche tedesche, o diversi fornitori di soluzioni green tech come i pannelli solari – la cui viabilità commerciale dipende in gran parte dalla disponibilità di parti economiche made in China.

Con l’accentuarsi del processo di deglobalizzazione, il ragionamento della Commissione (che sarebbe sostenuto anche da un numero crescente di Paesi, memori dell’utilizzo politico che la Russia di Vladimir Putin ha fatto del gas), ha a che fare con il controllo la dipendenza strategica dai Paesi che potrebbero avvantaggiarsene a scapito dell’Ue. Secondariamente, vista la necessità di dover competere con le industrie cinesi e statunitensi a forza di sovvenzioni, si vuole evitare che gli aiuti di Stato finiscano per avvantaggiare un rivale sistemico come la Cina.

Probabilmente il più grande indicatore della svolta europea è il supporto della Germania, Paese tradizionalmente mercantilista e legato a doppio filo alla Cina – come ha attestato la visita del cancelliere Olaf Scholz, circondato da industriali, al presidente Xi Jinping. In parallelo si sta sviluppando un movimento contrario, che di recente si è reso visibile manifestando le preoccupazioni dei tedeschi per l’investimento cinese nel porto di Amburgo. Non sorprende che proprio Robert Habeck, vicecancelliere e ministro dell’Economia, sia uno dei sostenitori delle nuove regole di monitoraggio degli investimenti in uscita: i Verdi che guida assieme ad Annalena Baerbock (Esteri) si sono fatti portavoce della necessità di un cambio di passo.

“Stiamo esaminando la creazione di una base legale per il controllo degli investimenti esteri di aziende tedesche ed europee in aree critiche per la sicurezza”, si legge in una bozza della Strategia per la Cina del ministero degli Esteri tedesco, in uscita a inizio 2023. Se corrispondesse alla versione finale, questo testo indicherebbe una netta svolta nella politica tedesca nei riguardi di Pechino – cosa che farebbe saltare il principale “freno” europeo all’indurimento dei rapporti con il partito-Stato.

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