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Phisikk du role – Le balene spiaggiate e il partito bubble gum

Prendendo spunto dalla riflessione di Michele Serra sulla Balena Bianca, Pino Pisicchio nella sua rubrica si domanda come mai un partito che ha avuto per quasi cinquant’anni un consenso popolare maggioritario, che nei tempi ordinari non scendeva sotto il 38% e in quelli straordinari toccava il 48, è scomparso in un amen senza lasciare traccia…

E chi avrebbe potuto pensare che, dopo 30 anni da quel 26 luglio del 1993, data che segna il trapasso della DC per dar luogo all’effimera e perigliosa stagione del Partito Popolare di Mino Martinazzoli, un ostinato e urticante antagonista di quel tempo come Michele Serra avrebbe ricordato dalle colonne del magazine di Repubblica, con inedita nostalgia e persino con qualche tenerezza, l’ultimo canto della Balena Bianca?

Certo, il retrogusto è amaro e intinto nell’inchiostro di un’oleografia d’antan. Ma Serra è d’antan anche lui, e pure la cartastampata, se è per questo. È chiaro che si scambia qualche battuta solo tra dialoganti un po’ âgée, a partire dagli ultra-cinquantenni e l’argomento resta ignoto e indifferente alle generazioni successive. Ma, ahinoi, la politica tutta resta ormai oggetto ignoto e indifferente per i giovani.

Torniamo alla Balena Bianca, partito egemone per quasi un cinquantennio (dal 1946 al 1994), perno del sistema politico italiano e garante dell’evoluzione democratica di un Paese uscito assai ammaccato dalle macerie di una guerra e da un ventennio di dittatura fascista. Trascuriamo tentazioni nostalgiche e sociologismi un tanto al chilo e ragioniamo su un punto: come mai un partito che ha avuto per quasi cinquant’anni un consenso popolare maggioritario, che nei tempi ordinari non scendeva sotto il 38% e in quelli straordinari toccava il 48, è scomparso in un amen senza lasciare traccia se non qualche mestissimo tentativo di imitazione agitando scudetti più o meno crociati che, ovviamente, nessuno mai si è più filato?

Risposta semplice semplice: perché non c’è più il suo popolo. O, se vogliamo dirlo in altro modo, perché la ragione sociale della DC si è compiuta in quegli anni, forse già nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo. Punto. Certo, la caduta inerziale avrebbe potuto essere più lenta se la sciagura di Tangentopoli non avesse promosso il passaggio al maggioritario, attraverso un referendum elettorale trasfigurato come una specie di ordalia pro o contro i partiti di governo dell’epoca. Tanto per capirci: nel 1994, anno della vittoria di Berlusconi alle prime elezioni col Mattarellum (approvato nel luglio del 1993, altro grande anniversario!), il PPI di Martinazzoli alleato con Segni raccolse alla Camera quasi il 16% dei voti e solo 33 seggi che, con il sistema proporzionale sarebbero stati 104, tanti in più, in grado di impedire la vittoria del centrodestra.

Ma la storia con i se è un esercizio simpatico, che però non è più Storia, semmai fiction. Dunque lasciamo stare la DC, per favore, rispettandone l’enorme ruolo storico, a partire dalla Costituente fino ai lunghi anni del governo, sempre sorretti da un enorme consenso di popolo (che non ebbe mai il Pci più simpatico a Michele Serra, né da solo, né come capacità aggregativa) e da una militanza attiva che ne faceva un partito sicuramente democratico con un vertice sicuramente contendibile. Possiamo imparare qualcosa da quell’insegnamento? Certamente sì , ma a patto di voler capovolgere i canoni attuali, a partire dalle regole elettorali: come si può parlare di partito di popolo se il popolo è escluso dalla scelta dei suoi rappresentanti nelle Camere legislative? La cooptazione è concetto estraneo alla democrazia dei partiti, così come il partito personale e il “partito bubble gum” profumato alla vaniglia che mastichi una volta e poi lo sputi via aspettando il nuovo spot per provare un altro aroma.



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