Skip to main content

Phisikk du role – L’importanza di chiamarsi Ernesto

La parentela o la stretta contiguità, ancorché non parentale, con il capo, non possono rappresentare un handicap in politica: se uno (una) è bravo ( brava), è giusto che vada avanti. Non fa una piega. Epperò dipende da chi conferisce il ruolo… L’opinione di Pino Pisicchio

Sono figlio di un deputato. Sono stato deputato io stesso più volte, e ho un fratello che fa politica nelle assemblee elettive di territorio. Come dire: una famiglia che dà del tu alla rappresentanza elettiva. Una parte fondamentale della mia esperienza politica si è svolta con il voto di preferenza che, come dovrebbe essere noto, è oggi la regola a tutti i livelli di rappresentanza tranne che al parlamento nazionale (dove vige la lista bloccata, cioè il cittadino non può scegliere il suo candidato). Tuttavia anche il Parlamento fino al 1992 ha goduto dello stesso meccanismo di selezione, messo nelle mani del cittadino e non del capo-bastone come oggi.

Ricordo che, soprattutto all’inizio della mia esperienza, ho dovuto ascoltare qualche commento malevolo, messo in giro dagli oppositori interni ed esterni alla mia parte politica, sul fatto che potesse sorgere una dinastia politica attraverso queste esperienze familiari.

La cosa finì subito perché non solo non è mai accaduto che i portatori dello stesso cognome fossero allineati nello stesso livello elettivo, ma, soprattutto perché il consenso- che non è mai trasferibile da persona a persona- veniva dato dal popolo: entrai alla Camera con 80.000 voti di preferenza, cioè di elettori che scrivono il tuo nome e cognome, dopo un cursus honorum di amministratore locale e di dirigente nazionale del partito e questo tappò la bocca a tutti.

Mi si perdoni lo scivolamento verso l’autobiografismo, sempre inopportuno, ma stavolta ci starebbe, risucchiato dalla notizia dell’assunzione ad un soglio di grandissimo peso nel partito di Fratelli d’Italia, della signora Meloni, sorella maggiore di Giorgia e compagna del ministro Lollobrigida. Chi ha mandato la signora Meloni a ricoprire il ruolo di responsabile della segreteria politica del partito e il suo compagno Lollobrigida a fare prima il parlamentare e poi il ministro, è la leader indiscussa di FdI. Si narra, peraltro, che la signora Arianna sia anche molto versata nelle faccende della politica, vissute con passionalità e competenza e che lo stesso suo compagno Francesco, già capogruppo dei deputati di FdI, sia tra i più attrezzati tra i titolari di un posto fisso nel cerchio magico della premier.

Il ragionamento, pertanto, condivisibile, potrebbe essere quello che osserva che la parentela o la stretta contiguità, ancorché non parentale, con il capo, non possono rappresentare un handicap in politica: se uno (una) è bravo ( brava), è giusto che vada avanti.

Non fa una piega. Epperò dipende da chi conferisce il ruolo. Se a darlo è il popolo attraverso un’elezione è una cosa. Se a concederlo è il sovrano assoluto, attraverso il compiacersi di una chiamata, è altra cosa. Bisogna ricordare l’origine delle parole per capire il senso delle cose. Per esempio il lemma “nepotismo”: quando il potere temporale e quello spirituale della Chiesa erano mischiati accadeva che l’alto prelato o addirittura il Papa (famiglia Borgia, per capirci), fossero sovrani assoluti e talvolta non particolarmente compresi del ruolo ieratico ad essi consegnato. Accadeva, infatti, che tra le rinunce ai piaceri mondani spesso non si contemplasse in privato quella all’eros procreativo.

Quando nasceva un figlio, però, non poteva essere riconosciuto come tale, per ragioni intuibili, per cui veniva considerato, per il mondo, un “nipote”. Da tutelare, valorizzare, proiettare verso obiettivi compatibili con rango, che era quello di figlio del re, appunto. Nacque così il “nepotismo”. Per estensione oggi disegna la tendenza che i potenti hanno a spianare la strada ai propri congiunti, secondo l’italico intramontabile comandamento del “tengo famiglia”. Beninteso: non è cosa estranea alla modernità, ma si ritrova con maggiore frequenza nelle dittature, nelle autocrazie, nei regimi dove la democrazia è incerta e i processi di selezione del ceto dirigente restano opachi.

L’Italia è indubbiamente un Paese che poggia su una democrazia compiuta. Tuttavia esistono zone d’ombra dove alligna l’ambiguità. La legge elettorale per l’elezione dei parlamentari, per esempio, che ha fatto fuori il popolo sovrano conferendo tutti i poteri ai compilatori delle liste. E la mancanza di una democrazia interna ai partiti, consentita dalla mancata attuazione dell’art.49 della Costituzione. Non sono cose trascurabili, ma, a furia di ignorarle finiscono per essere un inutile inciampo alla marcia trionfale dei nuovi leader.



Exit mobile version