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L’eredità di Biden passa anche dall’accordo Israele e Arabia Saudita. Per questo si farà

Per Joe Biden la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita è l’occasione perfetta per strutturare la sua legacy globale. In ballo gli equilibri di una regione iper vivace, i destini dei rapporti socio-culturali tra arabi ed ebrei, la competizione tra potenze in materie cruciali come la transizione energetica e l’Intelligenza Artificiale

Ogni giorno che passa, Israele e Arabia Saudita sono più vicini alla normalizzazione dei rapporti. Lo ha detto così, esplicito, il primo ministro saudita, l’erede al trono Mohammed bin Salman, durante un’intervista con Bret Baier, capo del grande desk politico di Fox News. Bin Salman era negli Stati Uniti per la riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a latere della quale il primo ministro israeliano, Benajamin Netanyahu, ha incontro Joe Biden per la prima volta da quando è presidente degli Stati Uniti. Molto scorre, con bin Salman che richiama al ruolo della questione palestinese, gli apparati israeliani che si muovono contro i gruppi a Jenin e Gaza, gli americani che cercano la quadra pragmatica ma narrativamente efficace.

Biden e Netanyahu, alla stregua di Biden e bin Salman, non hanno un rapporto personale eccezionale, ma il presidente statunitense si sta prodigando in prima persona — e attraverso una fitta serie di assistenti di alto livello — per costruire l’intesa sulla normalizzazione. Bin Salman ha mandato un messaggio di carattere globale usando il canale dei conservatori americani, quelli che sembrano meno interessati a far pesare i limiti sui diritti umani del suo Paese (più volte sollevati dall’amministrazione Biden) e più inclini a un approccio utilitaristico alla politica internazionale. Ma se il pensiero di bin Salman riguarda un ipotetico futuro post Usa2024 — quando il colore dell’amministrazione potrebbe cambiare — intanto c’è da registrare la fortissima volontà dell’attuale presidenza per arrivare a un’intesa.

L’eredità di JB sul nuovo ordine globale

Per il democratico alla Casa Bianca ci sono da superare alcuni scogli, tra questi le considerazioni di ampie parti del suo partito sul rispetto di principi e valori basilari (diritti umani, democraticità, equalitarismo) sia nei confronti di bin Salman sia di Netanyahu. Ma quello che c’è sul piatto impone un approccio pragmatico. La normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele che Biden sta cercando di mediare sarebbe infatti un successo formidabile da imprimere sulla propria eredità politica. Attorno ad essa ruotano progetti straordinari come il corridoio Imec, la possibilità di scrivere una pagina storica (visto il peso saudita) nei rapporti tra ebrei e mondo arabo, la competizione tra potenze. Interessi concreti si fondono con la volontà di affermazione personale anche sul piano diplomatico (oltre a quello economico) dopo che per anni ha rappresentato il mondo Dem nel quadro delle relazioni internazionali, prima da senatore e poi da vice e presidente.

Facendosi catalizzatori di un’intesa — il cui formato sarà probabilmente trilaterale e nuovo rispetto alle istituzioni di dialogo esistenti, come gli Accordi di Abramo o il Forum del Negev — gli Stati Uniti affermerebbero la loro ancora unica capacità da potenza globale. Davanti all’intesa Gerusalemme-Riad, quella irano-saudita — su cui Pechino ha messo il cappello dopo anni di mediazioni occidentali e regionali — verrebbe minimizzata. Perché in ballo ci sono dimensioni altamente futuribili: il Golfo a guida saudita è cruciale per una serie di sviluppi che riguardano la transizione energetica, e dunque economica, e dunque culturale, non solo della regione.

Il Medio Oriente potrebbe per esempio tornare hub nevralgico delle nuove tecnologie energetiche (come l’idrogeno). Ma considerando la capacità di investimento dimostrata, in primis proprio dai sauditi, e data l’entità del contratto sociale esistente in quelle monarchie, potrebbe essere il centro di sviluppo e applicazione di molte altre nuove tecnologie. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar sono all’avanguardia in settori come l’uso delle intelligenze artificiali, per fare un altro esempio. Fintech, agricoltura robotizzata, alimenti sintetici, cyber persona, smart city, sono settori di investimento di regni come quello saudita, usati come componente che accompagna in termini pratici le evoluzioni socio-culturali rivendicate all’interno delle varie “Vision”, ossia i grandi piani di transizione e sviluppo che bin Salman e altri regnanti teorizzano per i loro Paesi. Settori in cui Israele è attore leader globale (hub di dozzine di start up futuristiche) e su cui si muove la competizione tra potenze.

Ed è qui l’elemento di fondo. Materie come l’intelligenza artificiale sono parte della sfida per il futuro. In questi giorni per esempio è stata spesso citata nei discorsi dei leader mondiali riuniti all’Unga. “Dobbiamo garantire l’applicazione pratica del concetto di algorethics, cioè etica per gli algoritmi”, ha per esempio detto la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni. Tenere integrati nel sistema america-centrico medie potenze in crescita come Arabia Saudita e Israele può permettere di discutere anche con loro i nuovi standard. Fattori che determineranno più di ogni altra cosa il perimetro di un nuovo ordine mondiale in cui fisico e digitale saranno una sovrapposizione di realtà e metaversi.

La sfida per Biden e l’America

Il rischio è che altrimenti a dettare le regole del gioco siano attori rivali, come la Cina. Partita non banale scalzare Pechino da una missione già avviata con la diffusione di reti infrastrutturali fisiche e digitali che una decina di anni fa si dichiaravano altamente innovative – su tutte il sistema geopolitico noto come Belt & Road Initiative, a cui aderiscono diversi regni del Golfo. È questo un senso di Imec per esempio, il corridoio per collegare India (altra super potenza da tenere nel loop del nuovo ordine) e Medio Oriente e — tramite il territorio saudita e i porti israeliani — all’Europa. Gerusalemme e Riad sono componenti determinanti del concetto di Indo Mediterraneo abramitico che vede anche l’Italia protagonista (ragion per cui Roma dovrebbe sperare, e lavorare per quanto possibile, per la normalizzazione).

La sfida per gli Stati Uniti è ricreare il legame di fiducia che si è rotto ai tempi dell’amministrazione Obama, quando Washington sponsorizzava il disordine delle Primavere arabe sotto l’ottica strategica della rivendicazione delle Democrazie. E poi di andare oltre al rapporto famigliare e quasi clientelare costruito da Donald Trump e il suo clan, altrettanto disordinato per protocollo e obiettivi. Biden in questo momento ha un’occasione straordinaria che pare assolutamente interessato a sfruttare. Dimostrarsi attore d’ordine di un nuovo mondo multi-allineato e multi-dimensionale, in cui Paesi come Israele e Arabia Saudita avranno posti in prima fila.

La strada è avviata, basta pensare a come la regione abbia reagito all’arrivo del presiedente democratico alla Casa Bianca, innescando una serie di distensioni che hanno portato per esempio i turchi a riaprire i canali confidenziali con gli emiratini, gli israeliani e gli egiziani; le potenze del Golfo alla riconciliazione con il Qatar; Israele a mostrarsi disponibile nel dialogo con i Paesi arabi; l’Iran ad avviare un complicato isolamento delle fazioni reazionarie più estremiste (per quanto esse rimangano attive). Un processo che ha innescato una generale détente nel Mediterraneo allargato, ormai in corso da tre anni. Ma attenzione: all’interno di questa distensione permangono preoccupanti hotspot, perché se Pechino ha provato a inserirsi per dare al processo caratteristiche cinesi, Mosca ha dispiegato le proprietà putiniane per muovere destabilizzazioni. E nei singoli Paesi ci sono componenti di apparato che remano per l’instabilità come vettore di consenso e propulsore di interessi.

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